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«Sacro Gra»

by redazione

 «Sacro GRA», il documentario che ha vinto il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia, racconta storie incredibili di personaggi surreali: un mondo sommerso intorno all’anello stradale che circonda Roma, il Grande raccordo anulare.

di Pina Scarnecchia

Dell’autostrada urbana più lunga d’Italia si racconta nel Sacro GRA, il documentario di Gianfranco Rosi vincitore della Mostra di Venezia. In realtà, protagonista è la varia umanità che vive nel microcosmo sconosciuto dei 64 km. di Grande Raccordo Anulare – l’anello di Saturno di felliniana memoria – che circonda Roma, impedendone la vista dietro una barriera di macchine in periplo continuo e di rumori terra-cielo. Il GRA, appunto, prodotto dell’ottimismo da boom economico e della motorizzazione di massa, pianeta isolato dalla Città Eterna. Il titolo colpisce per la paradossale assonanza con il «Sacro Graal», simbolo di storia della Salvezza, lontana dal «Sacro GRA», non-luogo ignorato e rimosso da noi viaggiatori frettolosi. Rosi sospende la nostra corsa per farci entrare in una città marginale, con il suo carico di sofferenza e speranza: «Un viaggio laico di tre anni in stile monastico e francescano» tra gli invisibili, per tessere con loro rapporti di fiducia, fatti di incontri e pazienza, poi «arrivava il momento in cui le parole diventavano davvero una storia e allora io, solo con la macchina da presa… giravo». È la vittoria del documento sulla sceneggiatura, del vero sulla finzione che mai avrebbe potuto immaginare personaggi tanto surreali, protagonisti della propria autenticità. L’equazione «città-civiltà» cade già dalle prime inquadrature, sostituita dalla complessità di un mondo sommerso. Per averne una lettura profonda Rosi, «nei lunghi anni di ricerca dei luoghi, quando il GRA sembrava sfuggirmi, più invisibile che mai», porta con sé in camper Le città invisibili di Calvino. Accanto al regista, il paesaggista-urbanista Nicolò Bassetti in un cammino labirintico di 300 km, privo di coordinate, alla ricerca di identità sconosciute, storie, paesaggi. Fondamentale per entrambi il legame con Renato Nicolini, cui il film è dedicato, per il quale il GRA («opera eccentrica, totalmente fine a se stessa») nascondeva le contraddizioni della Città: infatti tutto ciò che la città «normale» espelle sembra raccogliersi nel Raccordo, in una stretta relazione fra vicende umane e spazi contenitori di cui si compone il «serpente cinetico».

Centrale per Rosi è la connessione uomo-spazio, a partire dallo spazio-casa che, da luogo di stabilità, si trasforma in condizione di precarietà e costrizione: ambulanza-habitat del barelliere, camper del vecchio trans, cortile per il ballo dei sudamericani, bancone di un bar dove si consuma il sogno di giovani cubiste, pace negata con gesti sacrileghi alle bare sloggiate dai loculi, spazio deformato di un’autorimessa-set per spettacoli trash o fotoromanzi. Lo sguardo della macchina da presa si accosta alle finestre di monolocali di un caseggiato popolare, arrestandosi pudicamente sulla soglia: un nobile decaduto dialoga, in un antico elegante eloquio, con la figlia impegnata ad investire nello studio la speranza nel futuro; due donne sfrattate immaginano all’esterno la bellezza negata all’interno. Il «cupolone» è appena evocato, una stessa angustia segna spazi interni ed esterni. Le storie vengono narrate per segmenti ripetitivi e statici che sembrano perpetuare sofferenze e mostruosità escludendo ogni evoluzione: i volti grotteschi di donne che attendono l’apparizione della Madonna, i due sedicenti «principi» che, tronfi per la consegna di improbabili onorificenze lituane, ignorano la loro bimba… e la ripresa taglia le loro teste inutili, soffermandosi sulla piccola con sguardo struggente. Tuttavia la speranza non è negata: la lotta del palmologo per salvare dal punteruolo rosso le palme, la reciproca pietas che si scambiano i vecchi trans, la cura del dolore altrui da parte del barelliere, attento all’ascolto della madre malata con parole, carezze, filastrocche infantili. Il pensiero va all’intreccio inscindibile di caos e cosmos della città calviniana di Perinzia, dove la perfezione dei calcoli di astronomi-urbanisti non riesce ad escludere la nascita di esseri deformi, forse perché «l’ordine degli dèi è proprio quello che si rispecchia nella città dei mostri». Il che non porta alla rassegnazione. Rende ancor più consapevole l’impegno di quanti vogliono restituire allo spazio caotico la dignità di luogo d’incontro e all’umanità la bellezza che merita.

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