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La scomparsa del pastore Sergio Aquilante

by redazione

Il 19 ottobre a Velletri (Roma) è morto il pastore metodista Sergio Aquilante. Nato nel 1931 a Palombaro (in provincia di Chieti), Aquilante è stato una figura di spicco del metodismo italiano, svolgendo il suo ministero pastorale in varie regioni italiane e ricoprendo incarichi di responsabilità, tra i quali: presidente della Conferenza della Chiesa metodista d’Italia e poi (dopo l’integrazione del 1979 tra metodisti e valdesi) del Comitato permanente dell’Opera per le chiese evangeliche metodiste in Italia; membro del Consiglio della Federazione delle chiese evangeliche in Italia e del Comitato esecutivo del Consiglio mondiale metodista; direttore del centro Ecumene (Velletri), del Centro sociale di Villa San Sebastiano (L’Aquila) e del centro diaconale La Noce (Palermo); presidente del Centro studi per il socialismo cristiano.

Con Sergio abbiamo condiviso tanti momenti di studio e di riflessione in occasione di molti campi politici tenuti al Centro ecumenico di Velletri Ecumene. Oggi ci lascia un amico, un fine intellettuale e un membro di chiesa solerte e acuto. Sergio nella sua vita ha portato avanti molte battaglie e pubblicato molti libri per l’editrice Claudiana.

Come redazione di Confronti esprimiamo la nostra vicinanza al presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, pastore Massimo Aquilante, figlio di Sergio, e alla sua famiglia.

Vi riproponiamo l’incontro a lui dedicato che avevamo pubblicato sul numero di maggio 2011 di Confronti.

Tra impegno sociale e testimonianza evangelica

a cura di Piera Egidi Bouchard

Il pastore Sergio Aquilante è stato presidente della Chiesa metodista in Italia, vicepresidente della Fcei e membro del Comitato esecutivo del Consiglio mondiale metodista. Noto per il suo impegno politico a sinistra, ha fondato il Centro studi del cristianesimo sociale, composto da evangelici e cattolici.

Sergio Aquilante è stato tante cose, ma certamente lo si può definire una bella testa pensante del meridionalismo evangelico italiano in questi decenni, e ancora recentemente, pur malato, ha accettato di partecipare con una densa relazione al convegno «Il protestantesimo italiano nel Mezzogiorno tra Otto e Novecento», organizzato a Napoli il 22 e 23 ottobre 2010 dall’Associazione «Piero Guicciardini» in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici.

Ero andata a trovarlo per questo «Incontro» mesi prima a Velletri, dove abita vicino al Centro evangelico di Ecumene, da lui molto amato e seguito ancor oggi: «Ci siamo tornati nel 2002 – dice – e nonostante gli anni io e mia moglie Lidia ci siamo subito dati da fare. Abbiamo promosso altri moduli di lavoro culturale e spirituale, aperti al territorio e al dialogo ecumenico e interreligioso. La presenza degli evangelici nella storia è stata per cambiare l’Italia. Questo vale in particolare per il Mezzogiorno: una paziente opera di educazione lungo la via della conversione all’Evangelo, per trasformare gli uomini e le donne del Sud in uomini e donne “nuovi”. Sono convinto inoltre che bisogna collaborare per restituire alla politica il suo ruolo di progettualità, di idealità».

Ecco, in queste parole c’è già tutto: una bruciante passione per l’evangelizzazione, la diaconia, l’impegno nel politico e nel sociale, il Mezzogiorno, che è anche la sua terra d’origine. Aquilante è nato infatti in Abruzzo quasi ottant’anni fa, a Palombaro, un paese di poco più di mille anime in provincia di Chieti, che aveva visto all’inizio del Novecento una forte evangelizzazione metodista episcopale, con l’apertura di scuole e la lotta contro la povertà.

«Il metodismo meridionale – ricorda – era formato da militanti evangelici socialisti, come Lucio Schirò e Giuseppe La Scala. Le vicende dell’evangelizzazione venivano raccontate in famiglia da mia madre, che era maestra, nelle serate d’inverno, e io sono cresciuto in una comunità dove risuonavano gli echi della storia, come un famoso corteo di protesta per il delitto Matteotti. Erano socialisti, poi alcuni, come mio padre, passarono al Pci. In casa avevamo una piccola biblioteca: io lessi a 14 anni La madre di Gor’kij. Tutti noi ci dedicavamo alla lettura. Questa è l’aria che ho respirato, e così sono stato educato».

La famiglia paterna, oltre all’impegno sociale ed evangelico, era – straordinariamente – una famiglia di artisti: «Artigiani e musicisti, anzi, “musicanti” – precisa con un sorriso – il nonno era calzolaio e suonatore di trombone d’accompagnamento nella banda musicale di Palombaro, creata nel 1860: è un paese a tradizione musicale, il mio! A dicembre-gennaio le strade si riempivano di suoni, perché i suonatori dei fiati “allenavano il labbro”… Mio padre, a sua volta, da ragazzino apprendista calzolaio col nonno, divenne un flicorno tenore solista ricercatissimo, poi compositore di marce sinfoniche e romanze, per sette anni col complesso bandistico di Recanati – da bambino, Beniamino Gigli mi ha tenuto in braccio – infine direttore della banda musicale del nostro Paese. Erano artigiani e suonatori anche i due fratelli di mio padre: Giovanni (calzolaio e suonatore di clarino) e Alfredo (orologiaio e flicorno baritono solista, oltre che compositore: il Comune gli ha persino intitolato una strada per la canzone popolare scritta in omaggio alle ragazze palombaresi!)».

Domando allora se in quest’atmosfera di evangelismo e di impegno è stata «ovvia» per lui la scelta di studiare teologia. «Niente affatto! Ho vissuto anch’io la stagione dei dubbi e delle negazioni, e da giovane neanche mi sfiorava l’idea del pastorato. Ero iscritto a Legge a Roma ma non frequentavo quasi». Un periodo di crisi, forse? «Dalla seconda liceo mi era venuto addosso un rifiuto totale dell’istituzione-scuola; mi sentivo male al solo pensiero di andarci, e così passavo le ore nella biblioteca provinciale a leggere. Avevo vissuto da ragazzino gli anni della Resistenza – a Palombaro si era costituita una banda partigiana – e poi le speranze dei primi anni del dopoguerra: dopo la botta delle elezioni del 18 aprile del ’48, in cui la sinistra perse clamorosamente, mi era venuta una sorta di nausea e di rifiuto, che si estendeva anche all’istituzione-Chiesa: “Mi avete raccontato in comunità delle grandi libertà dell’America” – pensavo –, queste libertà con la Resistenza le avevamo conquistate, ma ora c’è il ministro Scelba che perseguita gli evangelici: perché gli americani appoggiano il governo di cui quel ministro fa parte?”. Non era una crisi esistenziale, era una protesta».

E cosa successe, poi, a determinare la decisione del pastorato? «Alcuni piccoli eventi. Vennero in visita a Palombaro i pastori Emanuele Sbaffi e Lardi, in pieno inverno; il fatto mi colpì. Cercavo di capire il motivo per cui, già anziani, avessero affrontato un viaggio così lungo e faticoso. Conduttore della comunità evangelica era Arnaldo Benecchi, il padre di Valdo, che mi veniva a trovare: dimostrava attenzione per i miei problemi e una solidarietà autentica. Accadde che una volta nessuno dei tre che suonavano l’harmonium poteva accompagnare i canti, così mi chiese di provarci io. Tornai in contatto con la comunità e con la Scrittura. Poi successe che Benecchi ebbe un incidente con la motocicletta, e morì. Io ne fui sconvolto, e decisi di entrare nel ministero pastorale. Era il novembre ’52. Arrivai in Facoltà nel gennaio ’53, ad anno accademico iniziato».

Come era l’ambiente della Facoltà? «C’erano grandi maestri, che mi hanno dato un’ossatura spirituale e teologica: Giovanni Miegge, Valdo Vinay, Vittorio Subilia, Giorgio Peyrot. E tra i miei compagni divenni particolarmente amico con Sergio Rostagno, Franco Giampiccoli e Giorgio Bouchard – con cui ho condiviso per due anni la stanza e con cui ho condotto tante battaglie: nel movimento giovanile, nella Federazione delle chiese evangeliche etc.».

Dopo gli studi, l’anno all’estero alla Facoltà teologica di Strasburgo e il periodo di prova, c’è la consacrazione, nel 1959, e inizia, oltre alla cura di varie comunità al nord, centro e sud Italia, una vertiginosa serie di incarichi ecclesiastici – impossibili qui da elencare, ma aspettiamo la sua autobiografia – che lo portano alla presidenza della Chiesa metodista in Italia (dal ‘74 al ’79, anno che ha segnato il «patto d’integrazione» con la Chiesa valdese), poi dal ‘79 all’86 presidente del Comitato permanente dell’Opcemi (Opera delle Chiese metodiste in Italia), negli anni Novanta vicepresidente della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia e infine membro del Comitato esecutivo del Consiglio mondiale metodista.

E contemporaneamente, anche, c’è l’impegno nella diaconia, con la direzione di molti centri, tra i quali «Ecumene», «La Noce» a Palermo, «Casa Mia» a Napoli-Ponticelli, il Centro sociale Villa San Sebastiano: «Questi nostri interventi nel sociale – dice – non li ho mai considerati gesti di filantropia: li ho vissuti come segni, certo modesti e carichi di contraddizioni, del “mondo nuovo” che Gesù ha annunciato e inaugurato, segnali di una “novità di vita” che ci viene donata».

Va in questo senso anche il suo impegno politico nel Pci e nella sinistra storica, fino alla presidenza del Centro studi del cristianesimo sociale – composto da evangelici e cattolici – di cui insieme a Giorgio Bouchard fu tra i fondatori, partecipando per una decina d’anni alle «Giornate di Mezzano», in provincia di Parma, incontri bellissimi tra varie forze politiche e culturali sui temi dell’oggi.

«Ho cercato di portare il mio contributo sia sulle forme in cui attuare il “socialismo” oggi, sia sul lavoro pratico per costruire la “democrazia” – riflette – e ho il rimpianto di non essere riuscito a trasmettere fino in fondo nelle nostre chiese la convinzione dell’impegno cristiano “al di fuori”, tenendo sempre all’orizzonte l’Italia e i problemi della sua popolazione. Al tempo stesso, sul piano della polis, ho il rimpianto di non essere riuscito a trasmettere abbastanza ai miei compagni l’esigenza di costruire una politica densa di ideali e progettualità che non si rinchiuda nella semplice gestione del “potere”».

Quale valutazione si può quindi dare di questa complessa e ardua testimonianza? «Penso di avercela messa tutta – riflette – nel quadro delle mie capacità e delle mie forze. Magari, quando ho dato retta solo alla mia testa, ho fatto scelte sbagliate. E talora mi sono scontrato con le reazioni al mio carattere, di certo non facile né morbido. Tante volte ho dovuto affrontare difficoltà al di sopra delle mie possibilità di resistenza: la mancanza ricorrente di mezzi finanziari, l’opposizione, ma soprattutto l’indifferenza verso la nostra testimonianza evangelica, l’insorgere di malanni fisici e spirituali. Ma rendo grazie a Dio della vocazione che mi ha rivolto, rendo grazie per mia moglie Lidia, che ha condiviso e sostenuto il mio ministero, e per mio figlio Massimo, che anche lui ha accettato la chiamata di mettersi al servizio dell’Evangelo».

È l’uomo di fede, che ha sostenuto il tutto, e che risponde infine alla mia domanda su che cosa direbbe oggi ai nostri giovani. «Direi a un giovane cristiano: attenzione, non bisogna rinchiudere la realtà in un’ideologia o in una istituzione. Bisogna tenersi aperti alla libertà dello Spirito, che soffia come e dove vuole. È in questa dimensione che possiamo parlare dell’esigenza di “nascere di nuovo”, di trasformarci – dice con la passione che gli riconosco –; parlo da pastore, ma più vado avanti e più sono convinto di questa libertà e fecondità dello Spirito!».

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