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Il fallimento della Yalta «all’amatriciana»

by redazione

«Il governo Letta-Alfano era nato in nome della “pacificazione”, ma la strana pace delle larghe intese è stata soprattutto un quotidiano conflitto a bassa intensità, punteggiato da incursioni armate e atti di sabotaggio, in una situazione di sostanziale stallo delle decisioni che contano: quelle economiche, quelle legate alle possibilità di ripresa del paese e al rasserenamento di un clima sociale ormai sull’orlo della depressione di massa».

di Flavia Perina

Nel volgere di pochi mesi pare tramontato il progetto di una «Yalta italiana», un trattato di pace duraturo che dividesse la politica in zone di influenza dopo una guerra lunghissima e combattuta senza esclusione di colpi. Le cosiddette larghe intese, in fondo, altro non erano che questo: un patto di non belligeranza e cogestione del potere molto diverso, per la sua natura intrinseca, dagli accordi che in altri paesi europei (Germania in primis) hanno consentito di affrontare la crisi.

Altrove, le «Grosse koalition» sono state risposte pragmatiche alla richiesta di riforme profonde che nessuna forza politica, per quanto dotata di maggioranza parlamentare, avrebbe potuto sostenere da sola senza pagare pegno: pensiamo al primo accordo tra la Merkel e Shroeder, che rivoluzionò il welfare tedesco e il sistema di accesso al lavoro, o all’intesa tra Cameron e i lib-dem di Clegg, che (pur senza troppa fortuna) si era posta obiettivi alti: ridisegnare la «big society» britannica incentivando la concorrenza fra pubblico e privato. Da noi, in Italia, il governo Letta-Alfano non è nato in nome di un programma, né di una definita ambizione riformista, ma del valore, considerato strategico in sé, della «pacificazione». Una parola spesa a piene mani nei primi mesi di vita dell’esecutivo non solo dai protagonisti dell’accordo ma soprattutto dal suo massimo garante, il presidente Napolitano.

Una Yalta senza Norimberga, questo era il progetto. Di sicuro troppo pretenzioso per un paese che è più simile al Libano che alla vecchia Europa dei blocchi, e dove la lenta dissolvenza delle storiche classi dirigenti dei due principali partiti – Berlusconi, ormai al tramonto, da una parte; i vecchi leader del Pd dall’altra – scompiglia gli assetti delle super-potenze firmatarie del contratto. «Godetevi la guerra, perché la pace sarà terribile», si diceva una volta. E in effetti la strana pace delle larghe intese è stata soprattutto un quotidiano conflitto a bassa intensità, punteggiato da incursioni armate e atti di sabotaggio, in una situazione di sostanziale stallo delle decisioni che contano: quelle economiche, quelle legate alle possibilità di ripresa del paese e al rasserenamento di un clima sociale ormai sull’orlo della depressione di massa.

Il vero fallimento della nostra Yalta all’amatriciana è proprio qui, negli stati d’animo che ha diffuso nell’immaginario collettivo. Pochi mesi fa ha circolato nei cinema italiani un docu-film di Ken Loach, intitolato Lo spirito del ‘45, un bel racconto dei sentimenti di rinascita e riscossa che attraversarono il ceto medio e la working class britannica nel primissimo dopoguerra. Qualcosa di molto simile lo abbiamo vissuto in Italia, nella tempesta di nuove energie che collegò la fine del conflitto civile con gli anni del boom. Perché la fine della guerra dovrebbe portare con sé esattamente questo: voglia di farcela, speranza, maniche rimboccate e persino allegria nel reinventarsi una vita da capo. Nulla di tutto questo si è visto in Italia, neppure per dieci minuti. La rassegnazione e la voglia di fuga sono anzi diventati gli stati d’animo dominanti. Hanno sostituito la vecchia rabbia contro la Casta: un mood forse irrazionale, forse distruttivo, ma comunque «vivo» e preferibile al muto fatalismo dei tempi nuovi.

Servirebbe uno «Spirito del 2014», all’Italia, ma non arriva. Restiamo qui, appesi al destino giudiziario di Berlusconi, alle nevrosi congressuali del Pd, all’ennesimo e immaginifico progetto di ricostruzione centrista, al pressing dell’Europa, alle manovre economiche scritte per non scontentare nessuno, alle mediazioni al ribasso su tutte le partite che contano. Insomma, alla palude della guerra di trincea in cui siamo immersi da un ventennio e di cui non si capiscono più bene nemmeno gli attori e gli schieramenti. Ormai costretti a sfatare anche l’ultimo mito del nostro paese: quello che lo voleva capace di dare il meglio di sé nelle situazioni di crisi. Non è più vero, purtroppo.

(pubblicato su Confronti di novembre 2013)

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