di Gian Mario Gillio
Il 28 maggio 1974, in piazza della Loggia a Brescia, nel corso di una manifestazione antifascista, esplode una bomba che uccide otto persone fra cui Livia, un’insegnante di italiano che ama la poesia. Insieme a queste esistenze, scompare un mondo intero; il mondo prima del 1974, un anno che marca un punto di svolta per l’Italia e non solo. Benedetta Tobagi ci conduce in un viaggio dentro i misteri recenti della vita italiana, per cercare di vedere anche al di là di una verità sempre incompleta e per fare in modo che una strage impunita non si riduca semplicemente a un luogo e a una data. Il libro Una stella incoronata di buio – Storia di una strage impunita è uscito per la collana Frontiere – Einaudi Editore ed è disponibile in libreria. Ho letto il libro, un documento importante che ho trovato affascinante e avvincente e ho voluto incontrare, anche se fugacemente, Benedetta Tobagi in un caffè della stazione Termini di Roma, dove ho raccolto questa intervista, per Articolo 21 e Confronti.
Nel nuovo libro di Benedetta Tobagi un pezzo di storia d’Italia stragista ma anche un romanzo di vite, amori e passioni.
Il focus è la strage di Piazza della Loggia a Brescia. Un viaggio letterario condiviso con alcune persone sopravvissute alla tragedia che, il 28 maggio del 1974, cambiò il corso della storia del nostro paese. È il risultato di anni di lavoro e di ricerca in cui mi ha accompagnato, in particolare, colui che definisco il “mentore” del mio excursus – attraverso documenti, fonti e la presenza ai processi – Manlio Milani, “lo zio comunista” che mancava nella mia storia familiare. Un operaio pressoché autodidatta, un uomo sensibile, un militante, che proprio quel giorno perse la moglie Livia a causa della deflagrazione. Manlio è stato uno dei canali attraverso cui ho potuto entrare empaticamente nel clima dell’Italia di quegli anni e di quelli che, poi, sarebbero seguiti. Manlio, Livia e le amiche di lei, in un certo senso, sono i protagonisti di questa storia. Attraverso le loro testimonianze e le loro emozioni mi è stato possibile raccontare ciò che avvenne prima dell’attentato, durante e soprattutto quello che, a mio avviso, è stato il desolante deserto creatosi dopo.
Si può restituire un po’ di giustizia, che non è mai arrivata malgrado i numerosi processi, alle vittime della strage attraverso la pubblicazione di un libro?
Il mio libro intende rompere alcuni tabù e anche destrutturare la retorica di questa lunga vicenda. Ho seguito le varie fasi del processo e potuto fare così un’esperienza significativa. Nel nostro paese la giustizia è diventata un leitmotiv, si discute spesso sul come dovrebbe essere, sul come dovrebbe funzionare ed anche sul come dovrebbero finire le sentenze, dimenticandosi che anche i processi non sono altro che un oggetto storico calato nella società, proprio perché sono fatti dagli uomini e dunque condizionabili proprio dalla fallibilità umana. Al tempo stesso le fasi processuali sono governate da regole, per garantire alla giustizia umana la possibilità di auto-emendarsi. In questo libro cerco di raccontare un pezzetto del sistema-giustizia, nella sua complessità reale.
Anche la mia domanda era un po’ troppo semplicistica?
Un libro in sé non può fare giustizia. Raccontare le storie e i sentimenti delle persone che hanno subito le ingiustizie può essere, tuttavia, una forma di giustizia. L’operazione che mi stava a cuore era proprio quella di “scandagliare” i vari processi, non solo l’ultimo, proprio per aprire ad un discorso più ampio. Andare oltre la superficialità spesso riservata a temi così importanti. Mi sono accorta, lavorando in particolare sulla strage di Brescia, che siamo tutti vittime di quello che io amo definire “l’incantesimo delle sentenze”, ossia il fatto di volersi soffermare, spesso, solo sul dispositivo, senza tener conto di quanto si consolida nelle motivazioni. Malgrado i lunghi processi e le varie fasi e articolazioni di tutto il procedimento, quando arriva il verdetto delle assoluzioni il senso e il fondamento di tutto il lavoro fatto viene spesso vanificato. Questo è, a mio avviso, il dato più grave.
Così è stato anche per la strage di piazza della Loggia?
L’Esempio di Brescia è importante proprio perché la strage è rimasta impunita, non sono mai state emesse condanne. Insieme al lettore, ho voluto ripercorrere dati, testimonianze, fatti, documenti – questo è il ruolo della mia voce narrante nel libro – cercando di trovare, attraverso frammenti di verità storica acquisita, un filo di senso che spesso non si riesce ad evincere dalla sola lettura delle sentenze. Inoltre ho voluto fare un attento ragionamento sul contesto politico e sociale di quegli anni, sino ad oggi, che ha condizionato la storia processuale. Era mio intento uscire da una retorica semplicistica sulla giustizia politicizzata, in cui siamo impantanati da anni, che spesso ha impedito di poter guardare ai fatti in maniera limpida.
In quale clima avvenne il primo processo?
In concomitanza con la notizia del sequestro Moro, in un clima controverso, condizionato dall’emergenza del terrorismo e dal “compromesso storico”. Ho volutamente scavato nel contesto. Un tema imprescindibile è quello dei depistaggi. Alla semplice domanda “perché ancora oggi non ci sono colpevoli per quella strage?” è possibile dare una risposta. Possiamo oggi, sulla base dei documenti e delle testimonianze, rispondere a tante domande; ad esempio: chi ha sottratto documenti importanti? Chi ha mentito in fase processuale? Sapere chi ha condotto le indagini in modo “inadeguato” e addirittura quali abusi d’ufficio sono stati commessi. Per rispondere alla domanda precedente, la mia speranza è che ci sia una forma di giustizia proprio nella narrazione dei fatti, che cerca di non farli svanire. Molta pubblicistica e saggistica sulle stragi o sulle inchieste di mafia tende spesso a ricalcare le tesi della pubblica accusa, anche quando queste non vengono confermate né passate al vaglio processuale. Ritengo questo fatto concettualmente sbagliato. Nel mio caso ho cercato di analizzare a fondo tutta “la macchina” processuale, sentenze comprese. Ritengo tutto ciò doveroso per il lettore, per onestà intellettuale. Gli autori e i giornalisti non possono e non devono pretendere di ricostruire una narrazione egemonica.
A tal proposito, nel libro si fa riferimento all’episodio in cui Manlio accetta di partecipare ad un incontro organizzato dai militanti di CasaPound, proprio per parlare della strage. Gli amici, molti compagni, gli contestano tale decisione.
Racconto questa storia proprio per rimarcare con forza la necessità di un confronto tra narrazioni dei fatti differenti, ma al tempo stesso che non può ridursi al criterio del contraddittorio! Con questa formula è stata devastata anche l’informazione televisiva. Esistono invece posizioni diverse, non possiamo non tenerne conto. Per cercare di arrivare ad una sintesi. Dove non vi sono certezze definitive sui fatti accaduti, distillare tuttavia cosa può essere ragionevole argomentare. Dove non vi è certezza, spesso sono presenti ampi margini di plausibilità. Ho cercato di dare un’attenta ricostruzione dei fatti, per gradi, proprio per proporre un percorso di conoscenza del genere. Un libro è un tempo lungo che l’autore trascorre con il lettore, dove è possibile e consigliabile proporre i vari ragionamenti e confrontare narrazioni e contro-narrazioni. L’episodio di CasaPound fa emergere, con scandalosa evidenza, come un operaio comunista che per tutta la vita ha dimostrato sinceri sentimenti antifascisti, poi, e per paradosso, venga attaccato dai suoi compagni perché resosi disponibile ad un “confronto legittimante”. Il fatto che invece Manlio abbia deciso di non tirarsi indietro ci deve far riflettere. Manlio ha sempre sostenuto che rifiutare il confronto rende corresponsabili del perpetuarsi di un blocco.
In questo libro c’è la storia di Livia, moglie dello “zio” Manlio, che muore a causa dell’attentato
Livia è raccontata attraverso le lenti delle sue amiche Emma e Donatella. Quando parlo di quella memoria dolce, chiusa in uno scrigno, lo faccio attraverso il filtro di altre persone. Gli affetti, l’amore tra due persone, le esperienze vissute insieme alle amiche, sono gli elementi che fanno emergere tutto il dolore di questa tragedia sia personale che collettiva.
La strage di piazza della Loggia è diventata una vera ossessione, lei lo scrive nel libro. Storie di vita che l’hanno accompagnata in momenti e nei luoghi più diversi
La strage è una rappresentazione del male radicale. Costringe a confrontarsi con lo scandalo del male e dell’ingiustizia che colpisce l’innocente. Il motivo per cui la strage è diventata per me un’ossessione è questo: cosa si può fare di fronte ad una ingiustizia così grande? Dunque l’analisi sul male attraverso le domande kantiane: che cosa posso sapere, che cosa devo fare, cosa posso sperare e infine che cos’è l’uomo. Che cos’è l’uomo lo si capisce verso la fine del libro, proprio nel capitolo dal titolo Il peso del cuore nel quale mi sono interrogata proprio sulle figure degli stragisti. Una domanda, tuttavia, alla quale non ho trovato risposta riguarda la questione etica, grande assente in gran parte della leadership politica di quel tempo. Una storia fatta di terroristi senza volto e di taluni rappresentanti istituzionali che paiono indifferenti alle ingiustizie.
Nel libro lei, per sottolineare le sue posizioni, utilizza anche delle immagini
Faccio mia l’affermazione di Hannah Arendt: questo male senza radici, questo male senza immagini, questo male senza forma che non può essere pensato. Le immagini possono aiutare (soprattutto chi, come me, è nato dopo la strage e non ne ha memoria diretta) a comprendere, a pensare fatti così complessi. Grazie a foto d’epoca, all’utilizzo di quadri, ho cercato di avvicinare il lettore al mio viaggio. Un modo per rendere vivide le emozioni, i luoghi e le persone, le facce e i suoni, i colori e le parole che troppo spesso si perdono nel fiume d’informazione cui oggi siamo esposti. L’arte ha la capacità di supportare il pensiero. È necessario “rubare”, attingere a tutto quanto l’uomo ha già prodotto: sono sassi utili per costruire un sentiero attraverso una palude, senza sprofondare.
Se poco si conosce ancora oggi di questa triste storia, quali colpe ha l’informazione?
Per fare un solo esempio, escluso il momento della sentenza finale, alle udienze dell’ultimo processo erano presenti solo due testate locali di Brescia e l’immancabile Radio Radicale. L’assoluzione è stata la sola notizia di rilievo nazionale. L’informazione e la stampa politica, tra gli anni Settanta e Ottanta, invece hanno spesso supportato acriticamente le tesi della pubblica accusa, sgretolatesi poi al vaglio dei primi giudici. Nel libro ricordo con quale “violenza” la stampa si schierò, secondo logiche puramente partitiche, prescindendo spesso da elementi emersi nel processo. Grazie alle pagine d’informazione di quegli anni, che cito sovente, emergono con forza le spaccature che attraversavano il nostro paese.
Ogni autore considera il proprio libro un po’ come un “figlio” appena arrivato al mondo. Cosa spera per lui?
Ogni genitore si preoccupa di mettere alla luce un figlio e poi, con apprensione, guarda dove questo andrà e come verrà accolto dal mondo. Il mio intento è stato quello di renderlo abbastanza forte per consentirgli di affrontare autonomamente il proprio percorso. Questo ho cercato di fare.
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