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«La mia classe»

by redazione

di Michele Lipori

«La mia classe» racconta le storie di alcune persone immigrate che frequentano un corso di italiano per stranieri nella periferia di Roma. Il racconto alterna realtà e finzione, perché utilizza sì un attore – Valerio Mastandrea – ma per il resto vede protagonisti gli studenti veri, con le loro emozioni e i loro problemi.

 

La mia classe è un film diretto da Daniele Gaglianone, ambientato a Roma all’interno di un Centro territoriale permanente (Ctp) del quartiere Torpignattara e interpretato da Valerio Mastandrea nel ruolo di un insegnante di italiano per stranieri. Prodotto da Gianluca Arcopinto, da Kimera Film e dalla Relief (casa di produzione dello stesso Mastandrea) con Rai Cinema, ha ricevuto il contributo del Ministero per i beni e le attività culturali – Direzione generale per il cinema e il patrocinio del Ministro dell’Integrazione.

Dopo essere stato presentato alle Giornate degli autori dell’ultima Mostra internazionale del cinema di Venezia (che si è svolta dal 28 agosto al 7 settembre), è attualmente ospite di vari festival internazionali tra cui il Bfi London film festival. AgisScuola (referente del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca per quanto riguarda la diffusione di film di alto interesse culturale e didattico) lo ha inserito tra i titoli da proporre quest’anno nelle scuole.

La mia classe racconta, attraverso una struttura narrativa originale che alterna continuamente realtà e finzione, la storia di alcuni studenti stranieri che, venuti nel nostro paese per motivi diversi, frequentano un corso di italiano per appropriarsi dei codici di accesso al «Nuovo mondo» in cui vivono. Il progetto iniziale era ispirato al capolavoro di De Seta Diario di un maestro: un unico attore professionista alle prese con una classe composta da studenti veri. Nello sceneggiato del ’73 gli studenti della scuola di Pietralata erano i figli dell’immigrazione interna italiana, oggi gli immigrati sono adulti, vengono da paesi diversi e abitano la periferia romana: dal Pigneto al Quarticciolo, passando per Torpignattara e Centocelle.

La sceneggiatura originale era stata concepita come una struttura aperta sia all’improvvisazione del maestro-attore Mastandrea, unico ad avere delle linee guida da seguire, sia alla completa spontaneità dei ragazzi, a cui è stato chiesto semplicemente di essere se stessi e di non lasciarsi intimidire dalle telecamere.

Un film già di per sé sperimentale che diventa, poco prima delle riprese, ancor più complesso quando la realtà prende il sopravvento sulla finzione. Accade infatti che uno dei ragazzi protagonisti del film abbia davvero dei problemi a rinnovare il suo permesso di soggiorno per protezione umanitaria. Da quel momento l’intera struttura del film viene sconvolta. La troupe entra in campo: tutti diventano attori in un esperimento di «vera finzione» in cui è la realtà a parlare in tutte le sue lingue e al pubblico, come al maestro, non resta che mettersi in ascolto. Il regista, gli sceneggiatori e lo stesso Mastandrea attraversano un momento di profonda crisi e l’intero progetto rischia di saltare.

Il cinema può essere strumento di denuncia politica e civile? E, se sì, come fare a non cadere in facili cliché? «La decisione – racconta il regista, Daniele Gaglianone – è stata quella di strutturare il film su due livelli: uno in cui Valerio Mastandrea interpreta il professore e un altro nel quale si esibisce il fatto che si sta girando un film. Questi due livelli si intrecciano fino a diventare inscindibili: l’obiettivo è quello di fare in modo che lo spettatore smetta di chiedersi che cosa sta vedendo – un documentario, un film di finzione, un docufiction, un backstage… – semplicemente perché tutte queste categorie non hanno più senso in questo contesto. Si tratta anche di una riflessione sulla natura duale dell’immagine che rimanda contemporaneamente a due universi che spesso vogliamo separati, ma che invece separati non possono essere quasi mai».

Lo sguardo che ci aiuta a capire come siamo

intervista a Claudia Russo

I protagonisti del film «La mia classe» vengono da lontano, ma vivono in Italia: è proprio il loro punto di vista, esterno e interno allo stesso tempo, che ci serve a comprendere meglio la nostra società. Per farci raccontare come è nato e si è sviluppato questo progetto, abbiamo intervistato Claudia Russo, che del film è co-ideatrice e co-sceneggiatrice insieme a Gino Clemente.

Come nasce «La mia classe»?

L’idea del film nasce dall’esperienza diretta con gli studenti, con i Ctp (unica risposta statale alla richiesta di corsi di lingua italiana) e con le molteplici realtà che compongono la Rete Scuolemigranti del Lazio (centri sociali, parrocchie, associazioni). Due anni fa, quando ancora lavoravo nella redazione di un programma televisivo in onda su La7, insieme a Gino Clemente, cominciai a lavorare su un progetto per me incredibilmente importante perché in grado di sintetizzare finalmente i mondi che costituiscono la mia vita professionale: la scuola, il cinema, la scrittura (come giornalista, prima ancora che come sceneggiatrice). Osservare, studiare e raccogliere informazioni sono azioni comuni a tutti questi ambiti, e in tutti e tre i casi la cosa più difficile è rendere il percorso di conoscenza, da noi per primi intrapreso, praticabile e ripercorribile anche dagli altri. Trovare il linguaggio che parli ai diversi ascoltatori è ciò che ho sempre fatto di mestiere. Pensavo di avere cambiato troppi lavori. In realtà era sempre lo stesso. E non ha nulla a che vedere con flessibilità o posto fisso.

Perché ha pensato ad un film per il cinema?

La mia classe è la mia prima vera esperienza come sceneggiatrice e il suo valore sta nella motivazione: dare voce ai nuovi cittadini italiani, ai nuovi insegnanti di lingua, a me stessa. Volevo che la realtà delle scuole migranti, e soprattutto le vite degli uomini e delle donne che li frequentano, varcassero i confini delle assemblee di gestione, della debole politica dell’accoglienza, delle buone intenzioni che non cambiano la storia e della frustrazione che spesso accompagna il volontariato. Il cinema è in assoluto il mezzo più adatto allo scopo, anche perché è un mezzo che ho imparato a conoscere con gli anni: sono stata, durante il liceo, membro della giuria dei David di Donatello e del Leoncino d’oro a Venezia, poi ho collaborato con alcune riviste di settore e infine – dopo un’esperienza in radio – ho lavorato in storici programmi de La7 dedicati al cinema, come «25a ora» e «La valigia dei sogni». Poi accade un evento cruciale: l’azienda Telecom Italia Media, ex proprietaria di La7, decide di non rinnovare i contratti a tutti coloro che abbiano maturato un’anzianità tale da dover essere stabilizzati e, come ha sempre fatto, li manda a casa. La «mia» casa, che da anni andavo preparando parallelamente, era la scuola di italiano. Avevo già maturato anni di esperienza nelle scuole del volontariato che frequentavo la sera dopo il lavoro e avevo conseguito il diploma di insegnamento dell’italiano L2. Inoltre nel 2011, insieme ad altri coetanei, ho fondato l’associazione Passaparola Italia che si occupa di integrazione attraverso l’insegnamento delle lingue. Anche questo è un progetto sociale e politico. Come il nostro film.

Può parlarci di più di questa connessione fra l’aspetto sociale e quello politico del film?

La mia classe è e vuole essere un film sociale e politico, perché i due termini non dovrebbero mai essere staccati l’uno dall’altro. È sociale perché gli immigrati non sono «un’emergenza a Lampedusa», sono la nostra società in trasformazione e ci stanno parlando nella nostra lingua. È politico perché denuncia, attraverso le stesse parole ed esperienze dei protagonisti, le contraddizioni dei due principali provvedimenti in materia di immigrazione in Italia: il decreto per il rilascio della Carta di lungo soggiorno che ha introdotto il requisito della conoscenza della lingua italiana di livello A2 e il Decreto che, neppure due anni fa, ha istituito l’Accordo di integrazione (punteggi da raggiungere in vari modi e conoscenza della lingua di livello A2 entro due anni). Sottoscrivendo tale accordo, lo straniero dichiara di aderire alla carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione e si impegna a raggiungere determinati obiettivi pena la perdita dei punti di partenza e, di conseguenza, del permesso di soggiorno. Proprio una questione relativa al permesso di soggiorno di Issa, uno dei ragazzi del cast, ha dato origine alla struttura a doppio livello, sempre in bilico fra realtà e finzione, che caratterizza il film.

Qual è la realtà dell’insegnamento dell’italiano agli immigrati?

In estrema sintesi la situazione è questa: da un lato lo Stato stabilisce per legge che gli immigrati debbano imparare l’italiano, ma non fornisce loro gli strumenti e le strutture per farlo, dall’altro è in costante aumento il numero di giovani italiani che, investendo ancora una volta il proprio tempo e i propri soldi, si specializzano nel settore e conseguono la certificazione ufficiale rilasciata dagli enti preposti per l’insegnamento dell’L2. Molti insegnanti, moltissimi studenti, e nessun investimento economico nel settore. Se è vero che l’immigrazione non può più essere considerata un’emergenza, ancora più vero è che l’integrazione è da tempo una realtà quotidiana. Il nostro film vuole dimostrare proprio questo. I protagonisti vengono da lontano ma vivono in Italia e il loro sguardo sulla nostra società deve poterci illuminare, deve poter denunciare le incongruenze che noi stessi tendiamo a non voler vedere.

È stato difficile lavorare con non professionisti?

Non riesco ad essere obiettiva nel rispondere a questa domanda. Durante i primi giorni eravamo tutti molto tesi, a cominciare da Mastandrea che aveva il difficile compito di lavorare senza una «vera» sceneggiatura e aveva assoluto bisogno di entrare in sintonia con i ragazzi per poter sfruttare il suo naturale talento comunicativo, che è poi esploso durante le riprese. Io conoscevo le dinamiche di una classe e sapevo che, se avessimo lavorato sulla creazione di un gruppo, tutto sarebbe stato più semplice. Ma mai avrei immaginato che questi semi-sconosciuti si sarebbero uniti così tanto attraverso l’esperienza del film da diventare una classe inseparabile anche nella vita. Abbiamo girato per tre settimane quasi sempre in interno. Alla fine delle riprese eravamo una famiglia. Ci vediamo spesso anche ora.

Come avete scelto gli studenti?

La classe del film è frutto di una lunga e attenta «ricerca sul campo» che ha coinvolto due Ctp romani e alcune scuole della Rete Scuolemigranti del Lazio. Shady, Sheida e Shujan erano e sono studenti di Passaparola Italia, la «mia» associazione, mentre ad esempio l’altruismo di Remzi, la fede di Mamon e il coraggio di Esther li ho scoperti io stessa con il tempo, la pazienza, l’abitudine alle parole stropicciate e alle emozioni trattenute che caratterizzano i corsi di lingua italiana per stranieri. Il regista è rimasto immediatamente colpito dagli studenti di una classe del Ctp I, Daniele Manin, storica scuola interculturale del quartiere Esquilino a Roma e la maggior parte dei ragazzi provengono da lì. A San Lorenzo c’è Escool, la scuola di Esc atelier autogestito, dove abbiamo conosciuto Issa, Nazim e Bassirou; è grazie all’associazione InsensoInverso della Magliana che siamo entrati in contatto con Sonia ed è stata Bruna Iacopino, insegnante alla scuola popolare del Pigneto, a mostrarci l’efficacia dell’esercizio di scrittura creativa alla lavagna con cui apriamo le nostre lezioni nel film. È stato senza dubbio un lavoro collettivo in cui sono convogliate energie e competenze diverse. Io ad esempio ho preparato con Valerio Mastandrea tutte le lezioni che costituiscono la prima parte del film. Si tratta di metodologie ed esercizi che ho sperimentato all’interno della mia associazione, ma che abbiamo potuto facilmente trasferire e adattare all’interno del Ctp di via Policastro a Torpignattara dove il film è stato girato.

Quella raccontata nel film è una scuola poco conosciuta. Perché?

Il sistema che regola l’insegnamento dell’italiano a stranieri sia formale che informale è poco noto perché, nella crisi generale del sistema scolastico italiano, non c’è la volontà politica di affrontare un’ennesima difficile questione. Tra le altre cose, il nostro film vuole evidenziare come la buona scuola abbia sempre e in ogni caso la stessa funzione: formare i cittadini del futuro. Investire sulla scuola, osservarne i cambiamenti e ascoltarne i bisogni significa avere una visione lungimirante della società e di conseguenza della politica. Dove si posizionano, mi chiedo, le complessità proprie di una società multiculturale all’interno del nostro sistema scolastico? Quali sono i luoghi e le risorse cui possono attingere nuovi insegnanti e nuovi studenti? È sostenibile pensare ad un sistema che si alimenti solo tramite complessi bandi europei o forse bisognerebbe trovare altri modi di creare economia anche nei settori della cultura, della formazione e dell’integrazione? Non abbiamo nessuna di queste risposte, ma siamo pieni di domande: gli studenti, la scuola ed io.

intervista a cura di Michele Lipori

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