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Occupazione: un paese di «scoraggiati»

by redazione

di Maurizio Landini, segretario generale della Fiom-Cgil

Più di tre milioni di «scoraggiati»: così le statistiche definiscono quella parte di nostri concittadini che sono disoccupati ma un lavoro non lo cercano nemmeno più e che si vanno a sommare ai tre milioni di disoccupati «ufficiali», che – almeno – un’occupazione sperano ancora di trovarla e la cercano. Gli «scoraggiati» sono la parte più buia e angosciante del dramma del lavoro che nel 2013 ha raggiunto vette mai conosciute prima dal dopoguerra a oggi, in una Repubblica la cui Costituzione fin dal suo primo articolo afferma essere fondata proprio sul lavoro. Quelle persone che hanno abbandonato la speranza di trovare un impiego non vivono comodamente di rendita, ma sono le vittime di come il lavoro è stato trattato e umiliato negli ultimi decenni, fino a far perdere loro ogni fiducia in se stessi e negli altri; in primo luogo la fiducia in un paese e in uno Stato da cui si sentono abbandonati, se non schiacciati.

Questo non è solo il risultato della grande crisi economica degli ultimi anni, ma soprattutto il prodotto delle ragioni che l’hanno determinata e l’esito di come è stata gestita. Soprattutto in Europa, in particolare in quella mediterranea. Lo testimoniamo gli oltre 26 milioni di disoccupati e i 43 milioni di poveri dell’area Ue. Cifre in crescita che indicano quanto la condizione del lavoro e quella sociale siano intrecciate, e come il lavoro sia stato degradato pagando il prezzo principale della crisi e dei modelli economici che l’hanno determinata e su cui si continua a insistere: le politiche di bilancio ispirate all’austerità e al rigore monetario.

In Italia la crisi ha colpito soprattutto il settore manifatturiero, che ancora costituisce l’asse portante della nostra economia, aggravando il logoramento già avvenuto negli anni in cui la finanza è diventata il centro di tutto nell’illusione dei guadagni facili e immediati e favorito dalle stesse imprese che hanno puntato sulla competizione «povera», quella fatta sul costo e sulle condizioni del lavoro. Così oggi siamo oltre il 12% di disoccupazione, abbiamo cinque milioni di poveri, mentre più di mezzo milione di lavoratrici e lavoratori l’anno scorso hanno potuto sopravvivere solo grazie alla cassa integrazione.

Poi ci sono centinaia di migliaia di giovani senza lavoro o con occupazioni saltuarie e precarie che non danno loro alcuna certezza e futuro, «grazie» a leggi che per favorire i mercati – ma soprattutto i mercanti di braccia – hanno smantellato tutte le conquiste fatte nei decenni in cui la piena occupazione era un valore condiviso dalla gran parte delle forze politiche e accettato l’ideologia della deregulation. Tutto questo in un paese dove i salari sono tra i più bassi d’Europa – e nel solo 2013 hanno subito un calo medio di 500 euro – e dove non esiste nessuna forma di tutela universale dei redditi, dove è ormai facilissimo cadere in povertà assoluta e doversi affidare agli enti caritatevoli mentre lo stato guarda da un’altra parte.

Un quadro umanamente inaccettabile, una situazione socialmente drammatica, ma anche una profonda ferita e una minaccia per la nostra democrazia. Perché con il venire meno del valore del lavoro e della sua dignità va in crisi un collante essenziale del vivere collettivo e delle istituzioni che regolano l’esistenza di una comunità, cioè di un paese. Con la frantumazione del mondo del lavoro, mettendo le persone le une contro le altre in una selvaggia competizione per la sopravvivenza, si favoriscono le guerre tra poveri che sono alla base delle degenerazioni populiste che in tanta parte dell’Europa vanno assumendo pericolosi connotati xenofobi, nell’illusione che le «piccole patrie» di un territorio o di un’azienda mettano al riparo le persone da una competizione globalizzata che avvertono come pericolosa per la propria sicurezza materiale ed esistenziale.

È di fronte a tutto questo che appare urgente un’inversione di tendenza e una precisa svolta politica: le «politiche del lavoro» non possono più essere quelle limitate al mercato del lavoro e a una deregolamentazione che ha prodotto una giungla normativa in cui le persone in carne e ossa si sono ritrovate sperse e in balia di poteri assoluti e percepiti come «sovrannaturali»; le scelte economiche non possono più essere demandate ai poteri e alle istituzioni finanziarie e monetarie internazionali, ma le istituzioni politiche – gli stati, i parlamenti, l’Unione europea – devono assumersi la responsabilità di indirizzi e investimenti basati sulla logica del bene comune e indirizzati da subito ad arginare il dramma della disoccupazione e della povertà.

Ma, più in profondità, tutti noi dobbiamo convincerci che il lavoro deve riscattarsi dalla condizione di merce cui è stato ridotto per tornare a essere un valore fondante dell’esistenza comune, una delle basi della cittadinanza. E agire ogni giorno in tal senso.

(pubblicato su Confronti di febbraio 2014)

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