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Stefano Fassina: «Il decreto sul lavoro aumenta la precarietà»

di redazione

di Stefano Fassina

 

La politica economica dell’Unione europea e di ogni Stato dell’Unione deve avere come stella polare il lavoro. Il lavoro non può essere più il sotto-prodotto eventuale delle politiche di bilancio. Il problema del lavoro è essenzialmente un problema macro-economico. Poi, di politiche industriali, di contesto produttivo, di modello di impresa e di investimenti in innovazione di processo e di prodotto. Nella fase storica in corso, è anche un problema di redistribuzione dei tempi di lavoro. Il costo del lavoro, le regole del mercato del lavoro e le forme contrattuali possono essere, con soluzioni adeguate, soltanto un complemento. Il Decreto varato dal governo Renzi va cambiato in Parlamento. Nella versione presentata, è l’ennesimo intervento di svalutazione del lavoro, data l’impraticabile svalutazione della moneta, per tentare una impossibile competizione di costo all’inseguimento delle esportazioni. Dall’obiettivo di un contratto a tutele crescenti, siamo caduti a un contratto a precarietà permanente: un contratto a tempo determinato senza causali, per 3 anni, spezzati in 8 proroghe e poi un contratto di apprendistato senza formazione e senza una quota minima di stabilizzazioni. Vuol dire soltanto più precarietà, ulteriore debilitazione della capacità negoziale dei lavoratori, riduzione delle retribuzioni, quindi del potere d’acquisto delle famiglie, dei consumi, dell’attività produttiva e, a chiusura del cerchio regressivo e depressivo, dell’occupazione.

Oggi, la scarsità di lavoro e la regressione delle condizioni della persona che lavora sono l’inevitabile conseguenza della caduta del livello di attività produttiva. Il focus della politica economica deve essere l’innalzamento della domanda aggregata, ossia maggiori consumi e maggiori investimenti, miglioramento della distribuzione del reddito e apertura di spazi di finanza pubblica per alimentare investimenti produttivi. A tal fine, l’intervento sulle detrazioni Irpef dei lavoratori e delle lavoratrici a reddito medio-basso va nella direzione giusta a condizione di attuarlo con una revisione degli obiettivi di deficit per almeno il prossimo triennio. «Coprire», invece, il taglio dell’Irpef con un corrispondente taglio di spesa avrebbe documentatissimi (vedi analisi del Fondo monetario internazionale sui moltiplicatori di bilancio) effetti recessivi.

Per promuovere il lavoro, gli strumenti di intervento in mano ai governi nazionali dell’euro-zona sono estremamente limitati: la politica di bilancio, la politica monetaria, la politica del cambio, le tre principali leve, sono soffocate in astratti e irrealistici algoritmi scolpiti nei Trattati oppure affidati a una Banca centrale concentrata soltanto sull’obiettivo dell’inflazione. Ma la rotta mercantilista, segnata dall’austerità cieca e dalla svalutazione del lavoro, è insostenibile. Non possiamo tutti puntare sulle esportazioni per crescere. L’universalizzazione del percorso tedesco è impossibile: aggrava le condizioni dell’economia e gonfia i debiti pubblici, aumentati nell’euro-zona dal 65% del 2008 al 95% del 2013. Nell’euro-zona, una ripresa in grado di riassorbire disoccupazione non è in vista, ma i tempi per una radicale correzione di rotta del «Titanic Europa» sono strettissimi. L’alternativa alla svolta nella rotta di politica economica è, per noi, un Piano B: la permanenza nell’euro e la rinegoziazione degli impegni sottoscritti. No ai no-euro. Sì a un’altra Europa per lo sviluppo sostenibile e il lavoro.

Oltre alla politica macro-economica, va attuato un «Servizio civile per il lavoro», nel quadro della «Youth Guarantee», per consentire una prima esperienza lavorativa pur limitata nel tempo e un sostegno al reddito analogo all’indennità di disoccupazione. Il «Servizio civile per il lavoro» dovrebbe articolarsi in «progetti» finanziati da risorse pubbliche e realizzati dal Terzo settore.

Per promuovere il lavoro e migliorare le condizioni della persona che lavora è anche necessario un piano per la redistribuzione del tempo di lavoro. Come scrive Pierre Carniti (La risacca. Il lavoro senza lavoro), le prospettive di crescita di medio periodo – dati i tempi necessari, anche nello scenario più favorevole, alla correzione di rotta della politica macro-economica – non possono riassorbire la disoccupazione. Non vanno fissati limiti omogenei all’orario di lavoro («35 ore»). Si tratta di: introdurre flessibilità nell’uscita dal lavoro per pensionamento e pensionamento part-time; incentivare il part-time e congedi parentali; eliminare gli incentivi allo «straordinario»; potenziare gli sgravi fiscali per i contratti di solidarietà; promuovere il part-time agevolato e volontario; potenziare, secondo i principi della sussidiarietà, i servizi alla famiglia (dagli asili nido all’assistenza agli anziani non-autosufficienti).

La bussola per navigare il mare in tempesta è la dignità della persona che lavora.

 

(pubblicato su Confronti di aprile 2014)

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