di Valter Vecellio
L’Europa riconosce all’Italia dei «significativi risultati» in materia di carceri, ma non è chiaro a cosa si riferisca, dato che la condizione dei nostri detenuti continua ad essere drammatica. Inoltre, il 17% delle quasi 60mila persone in carcere è ancora in attesa di giudizio: una diminuzione troppo lieve rispetto al dato di due anni fa.
Il comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha riconosciuto «i significativi risultati» ottenuti dall’Italia per quel che riguarda la situazione delle carceri. In cosa consistano questi «significativi risultati» lo si ignora, perché la situazione non è mutata rispetto a un anno fa. Attualmente un detenuto su cinque è in carcere senza aver subìto un processo, una condizione che riguarda ben 10.389 reclusi, il 17% dell’intera popolazione carceraria (59.683, secondo i dati aggiornati al 30 aprile scorso). Un fenomeno ci ricorda l’Associazione italiana dei giovani avvocati (Aiga), che ha elevati costi umani ed anche economici per il paese, visto che ogni giorno per la carcerazione preventiva l’Italia spende circa 1,3 milioni di euro.
Per stabilire quanto costa la carcerazione preventiva l’Aiga è partita dai dati del Ministero della Giustizia e ha poi moltiplicato il numero dei detenuti sottoposti al carcere preventivo per ciò che lo Stato spende al giorno per ogni singolo recluso: una cifra pari nel 2013 a quasi 125 euro, in un anno 45.610 euro. Dal punto di vista numerico la situazione è migliorata da quando nel gennaio del 2013 fu pronunciata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo la sentenza Torreggiani, visto che allora i detenuti in attesa di giudizio erano circa 12.439 (18,87%) su un totale di 65.905 detenuti. Ma anche l’attuale numero di reclusi senza processo è «ancora troppo alto, considerato che si tratta di persone sottoposte ad una misura cautelare senza aver subìto alcun processo». L’Aiga ricorda che il più recente dato sul sovraffollamento carcerario, quello elaborato dal Consiglio d’Europa e aggiornato all’1 settembre 2012, vede l’Italia al penultimo posto, «peggio di noi solo la Serbia».
Una situazione di palese illegalità, che non può essere risolta dai provvedimenti tampone annunciati dal Governo; una situazione in contrasto con la Costituzione e la normativa europea, e che può essere sanata solo a partire da un provvedimento di amnistia e indulto. Lo ha ben detto, chiaro e forte, il procuratore generale aggiunto che coordina i magistrati dell’esecuzione penale, dottoressa Nunzia Gatto: «Sono dell’idea che si sarebbe dovuta seguire la linea più volte indicata dal presidente della Repubblica per alleggerire il sovraffollamento carcerario: amnistia e indulto. In quel modo, per noi sarebbe stato possibile applicare automaticamente il condono ai detenuti che ne avessero avuto diritto».
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, con il suo (finora unico, e inascoltato) messaggio alle Camere, ha «gridato» il suo autorevolissimo «non si perda neanche un giorno». Ci sono state le iniziative nonviolente che i radicali in questi mesi hanno messo in atto: dallo sciopero della fame e della sete di Marco Pannella a quello della segretaria di Radicali italiani Rita Bernardini; da ultimo – ma non ultimo – gli incoraggiamenti e gli appelli di papa Francesco con le sue telefonate a Pannella… l’obiettivo è chiaro: chiedere alle nostre istituzioni di porre in atto tutti i provvedimenti legislativi volti a rimuovere le cause strutturali e sistemiche del sovraffollamento carcerario che generano i trattamenti disumani e degradanti nelle nostre carceri.
Gli aspetti della pena illegale in Italia non riguardano solo gli spazi a disposizione di ciascun detenuto (e qui il sovraffollamento persiste) ma anche la possibilità di accesso alle cure. Su questo versante la situazione è disastrosa, perché oltre i tossicodipendenti, che sono il 32%, il 27% dei detenuti ha un problema psichiatrico. Non solo: malattie infettive debellate all’esterno dietro le sbarre si diffondono sempre di più. Tra queste, l’epatite C è la più frequente (32,8%), seguita da Tbc (21,8%), epatite B (5,3%), Hiv (3,8%) e sifilide (2,3%). Con tutti i rischi di diffusione di queste malattie all’esterno. Per quel che riguarda inoltre le possibilità di accesso ad attività quali il lavoro e lo studio, siamo ancora all’anno zero. C’è una percentuale bassissima di detenuti che può svolgere lavori poi spendibili all’esterno. Su quasi 60mila detenuti, solo 2.278 solo quelli che svolgono attività per datori di lavoro esterni, mentre 12.268 fanno lavori poco qualificanti all’interno del carcere.
Quanto agli interventi approvati per ridurre l’emergenza sovraffollamento, queste misure non sono tali da far uscire l’Italia dall’illegalità e farla rientrare nei parametri costituzionali italiani ed europei. La democrazia e lo stato di diritto si possono realizzare solo difendendo i diritti umani fondamentali. Ne siamo, purtroppo, ben lontani.
(pubblicato su Confronti di luglio/agosto 2014)