Attentato di Parigi. Condannare non basta - Confronti
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Attentato di Parigi. Condannare non basta

by redazione

di Paolo Naso

A caldo è difficile trovare le parole per commentare l’attentato del 7 gennaio al settimanale satirico Charlie Hebdo di Parigi. La «geometrica precisione» di un’azione paramilitare, la forza simbolica dell’obiettivo, la brutalità dell’esecuzione a freddo di giornalisti, disegnatori e poliziotti ci danno la misura di un gesto clamoroso e calcolato.

La domanda di queste ore è che cosa gli attentatori abbiano voluto dire e a chi intendessero rivolgersi. Rispondere a questi interrogativi quando ancora mancano certezze sul piano delle indagini è certamente molto rischioso. Ma di fronte a un gesto eccezionalmente grave e programmatico come quello di Parigi tacere sarebbe irresponsabile e incomprensibile.

È questo il tempo di parlare e forse di urlare per dire che quanto è accaduto non può avere alcuna giustificazione religiosa, politica o culturale. Le argomentazioni che richiamano il disagio delle banlieues, le responsabilità dell’Occidente per il collasso geopolitico della Libia, della Siria e dell’Iraq, il peso dell’islamofobia in Europa oggi appaiono diversivi ideologici inconsistenti, buoni per una cattiva sociologia che tende a comprendere e giustificare quello che, senza se e senza ma, va condannato. E tra le poche buone notizie di oggi vi è il fatto che proprio nel Paese dell’attentato, a iniziare dall’Unione delle organizzazioni islamiche di Francia – che come l’Unione delle comunità islamiche in Italia (UCOII) ha almeno alcune delle sue radici storiche nei Fratelli musulmani – vi siano state reazioni ferme e chiare espressioni di critica e di condanna dell’attentato terroristico.

Ma la condanna non risponde alle domande che ci ponevamo: qual è il messaggio contenuto in un gesto di  furore antioccidentale e a chi si rivolge. Le prime indagini rivelano un «filo» siriano che lega il gesto di Parigi alle reti jihadiste: è un indizio che ci fa immaginare che gli attentatori si interpretino come guerrieri di una guerra che si combatte in teatri diversi e distanti. Nella loro strategia globale, i confini del Dar al Islam – i territori dell’islam distinti e contrapposti a quelli non islamizzati – si espandono a occidente senza soluzione di continuità: Aleppo come Parigi, Kobane come Londra.

Il messaggio è quindi rivolto all’Occidente, richiamato in guerra come ai tempi delle azioni militari dell’era Bush, padre ma soprattutto figlio. Stessa logica, a parti invertite e giocando con l’arma del terrore contro i simboli piuttosto che delle bombe contro gli obiettivi militari e civili.

E tuttavia l’intero quadro geopolitico nordafricano e mediorientale suggerisce che gli occidentali siano dei destinatari collaterali di un messaggio rivolto soprattutto a ciò che noi definiamo «islam», interpretandolo come un corpo unico e compatto, uguale a se stesso nei secoli e nelle diverse aree del mondo. Non è così e mai come oggi l’islam è travagliato da uno scontro esiziale tra due comprensioni di se stesso, tra due teologie e due incompatibili modelli di relazione con ciò che è altro da esso.

Ciò che i terroristi nel nome di Allah vogliono scatenare sembra una guerra ma in realtà è una «fitna», uno scontro fratricida per l’egemonia all’interno della umma ovvero della comunità islamica. Se il loro obiettivo simbolico sono i cristiani in Siria o una testata laica e satirica francese, quello reale è l’islam che dialoga e si confronta con l’Occidente, quello che concepisce la possibilità di una convivenza multireligiosa e che arriva ad apprezzare quel sacrosanto principio di laicità che tutela le libertà di ogni uomo e di ogni donna, a prescindere dal fatto che creda e da come creda.

E se la buona notizia è che in questi giorni musulmani di tutto il mondo condannino senza mezzi termini gli attentatori di Parigi, quella cattiva è che sia l’Occidente che gran parte del mondo islamico non colga l’obiettivo primario di questa strategia. Intendo dire che condannare non basta. Strada per strada, chiesa per chiesa, moschea per moschea bisognerebbe spiegare che non siamo spettatori o protagonisti di un nuovo scontro di civiltà, dell’armaghedddon tra l’Occidente «cristiano» e l’islam «globale». Non è così, e per questo non basta esecrare. Bisogna avere il coraggio di dire che uccidere nel nome di Dio è blasfemo, offende e distrugge il messaggio di pace dell’islam, cancella secoli di prossimità e persino di fraternità abramitica. Questo il messaggio che dovremmo sentire nelle moschee e nelle chiese e, in un giorno di lutto e di cordoglio, sarebbe un incoraggiante messaggio di speranza.

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