di Paolo Naso
Fermo restando che la condanna degli attacchi terroristici in Francia va pronunciata senza alcuna esitazione o giustificazione, occorre porsi alcune domande sulla satira: il principio fondamentale della libertà di espressione implica l’abolizione automatica di ogni limite al dileggio e allo sberleffo?
«Uccidere nel nome di Dio è un’aberrazione, ma le religioni non vanno insultate», ha dichiarato il papa parlando con i giornalisti nello Sri Lanka. «Si può danneggiare una persona anche con le parole – gli ha fatto eco il rabbino Riccardo Di Segni, capo spirituale degli ebrei romani – e non si deve mancare di rispetto agli altri. La persona ha diritto alla sua dignità e io non sono Charlie».
Neanch’io, e mi riconosco nelle parole del papa e del rabbino capo. Forse per ragioni diverse dalle loro e attraverso un altro filo di ragionamento ma, se si vuole essere diretti e sintetici, ciò che hanno detto nella sostanza esprime anche il mio pensiero.
Il tema non è il giudizio politico e morale sugli attentati francesi, che deve essere di pronta, adamantina e integrale condanna, senza giustificazionismi sociologici o geopolitici: lo squallore delle banlieues affollate di giovani figli e nipoti di arabi disillusi dal sogno assimilazionista della République non attenua in alcuna misura la portata terroristica e disumana degli attentati. E neanche «le responsabilità politiche dell’Occidente» nei confronti del mondo arabo e del Medio Oriente, «l’eredità della violenza coloniale» e neanche «la concezione imperiale del potere globalizzato», come recita il mantra di certa cultura no global.
Atti di terrore come quelli che abbiamo visto non esprimono altro che il disprezzo per i fondamentali principi dell’umanità, della coesistenza e della giustizia perseguita impugnando i codici piuttosto che i kalashnikov. E persino dell’islam, ma questo dovranno dirlo – e in questa occasione lo hanno fatto con apprezzabile chiarezza – i leader dell’islam italiano, europeo e mondiale.
Quello dei Kouachi e dei Coulibaly è un delirio reazionario incompatibile con la modernità, con quel tratto liberale proprio dell’Occidente liberale cresciuto leggendo ed amando Kant e Locke, Jefferson e Beccaria, Stuart Mill e Bonhoeffer. L’avversione e lo scontro con la dittatura armata di un’idea, di un potere e di una teologia non potranno che essere totali.
Ma non è questo il nostro tema; diciamo che questa era la doverosa premessa per evitare di essere fraintesi e magari di giustificare quello che invece deve essere combattuto.
La questione è se il richiamo ai principi e al diritto liberali implichi che non vi siano limiti al dileggio, allo sberleffo, all’invettiva. Per certi settori del mondo laico che hanno fatto di Charlie Hebdo la bandiera del principio di separazione tra religione e politica e della libertà del pensiero, sì. Senza dubbi né tentennamenti. E quindi le vignette che raffigurano il profeta dell’islam nudo, con il culo all’aria e la scritta «è nata una stella» – cifra stilistica tipica di Charlie Hebdo – sarebbero una apprezzabile quanto insindacabile espressione di libertà.
A questo schema di ragionamento se ne oppone un altro, probabilmente caro a papa Francesco e al rabbino Di Segni, che distingue tra satira e blasfemia e, tracciando una linea netta tra l’una e l’altra, assolve la prima e condanna la seconda. «Scherza con i fanti e lascia stare i santi», ammonisce la saggezza popolare. L’adagio ha un suo fondamento giuridico, al punto che ancora oggi in vari paesi la blasfemia, generalmente associata alla bestemmia, è considerata un reato in qualche caso penale.
La tendenza prevalente, però, tende a un obiettivo diverso: più che a sanzionare la bestemmia, vari Parlamenti e lo stesso Consiglio d’Europa intendono contrastare le espressioni d’odio rivolte a una o più comunità di fede. E così, ad esempio, negli Usa e nel Regno Unito la bestemmia non è un reato, evidentemente giudicando l’espressione blasfema un atto di libertà individuale forse deprecabile ma non sanzionabile.
Eppure gli stessi paesi hanno norme stringenti e prevedono sanzioni pesanti per chi inciti all’odio contro un individuo o un gruppo. Per dirla con Silvio Ferrari, secondo questa linea giuridica «l’oggetto della protezione non è la religione per sé ma il turbamento della pace sociale determinato dall’espressione offensiva. In tal modo la religione – prosegue il giurista – non è più destinataria di una protezione speciale ma è tutelata al pari di altre caratteristiche che identificano una persona o una comunità». E così i grandi giornali statunitensi hanno deciso di non pubblicare le vignette che invece tanto successo hanno avuto in Europa: lo hanno fatto da una parte per rispetto delle norme sui crimini d’odio (hate crimes) che puniscono chi offende – non solo chi aggredisce! – una persona o un gruppo utilizzando argomenti di ordine fisico, religioso o razziale; ma, dall’altra, in omaggio al cosiddetto politically correct. Sì, proprio quel codice linguistico che ci ha educati e non dire più negri, handicappati, checche, maomettani, vu cumprà, rabbini… neanche per scherzo e sotto l’abito elegante della «satira pungente».
Il linguaggio politically correct, nato negli anni ‘90 nei college Usa per contenere tensioni razziali e di genere, che in più di qualche caso erano degenerate in veri scontri, in Europa viene bollato come una ipocrisia risibile quanto ingenua. E c’è chi rimpiange il linguaggio maschio e rude del primo Bossi o del vecchio Le Pen, ai quale viene concessa la patente della genuinità e dell’onestà intellettuale di chi «dice quello che pensa».
Idealmente l’11 gennaio avrei marciato a Parigi e persino cantato la Marsigliese, ma non sono Charlie. Perché credo che esista un preciso confine alla libertà di espressione, che non è tanto nell’offesa a Dio, che si suppone abbia altro a cui pensare che alle umane blasfemie. Il confine da non superare è quello dell’etica della sostenibilità della convivenza: quando con una vignetta si offende una comunità o un individuo, si irride alla sua fede, a quello che mangia, a come si veste e al suo accento si mette una bomba nelle cantine del condominio in cui abitiamo. E ci si deve fermare, arrivando a punire – non a idolatrare – chi decide di andare comunque avanti. Libertà di espressione non è libertà di offesa. Quando anni fa il senatore Calderoli passeggiava con un «maiale da passeggio» in un’area che si pensava di destinare alla costruzione di una moschea non ha celebrato la libertà di Voltaire, ma ha compiuto un gesto violento e razzista. Come sono gesti violenti anche le vignette antisemite, i cori razzisti e gli stereotipi sui gay.
E non sono Charlie anche per una ragione politica legata al fatto che per vincere la terribile guerra che il jihadismo ha dichiarato all’islam «moderato», oltre che all’Occidente secolarizzato, abbiamo bisogno del pieno e convinto sostegno dei milioni di musulmani che esecrano ogni violenza ma che sentono come una ferita la ridicolizzazione del loro Profeta e del loro libro sacro. Stringerli nella morsa del fondamentalismo jihadista da una parte e della satira islamofobica dall’altra non appare una grande strategia di attrazione ai principi e ai valori dell’Occidente liberale. Ma è quello che facciamo identificandoci con una comunicazione offensiva e razzista, non troppo diversa da quella antisemita che in altri tempi accompagnò tragiche avventure europee.
Vent’anni fa Barbara Spinelli scriveva che «tutto è permesso, visto che la politica è morta. Tutto è pronunciabile, dicibile […]. È l’urlo dei rabbiosi integralisti di Giudea e Samaria, che hanno decretato la divina punizione di Rabin, a Tel Aviv. È l’urlo degli epuratori etnici in Serbia… che fin dai primi anni Ottanta hanno cominciato a chiamare gli albanesi e i croati con nuovi nomi, spregiativi…».
Il bene comune dell’Europa multiculturale vale molto di più della licenza di offendere.
(pubblicato su Confronti di febbraio 2015)