di Simonetta Salacone (ex dirigente scolastica della scuola «Iqbal Masih» di Roma)
La riforma voluta dal governo Renzi attribuisce molto potere al dirigente scolastico, al quale verrà affidata la valutazione dei docenti, con tutti i prevedibili rischi di discrezionalità e di pressioni. Senza contare poi che questo favorirà la creazione di una forte competizione fra colleghi all’interno delle scuole. Lo «school bonus», inoltre, finirà ovviamente per favorire le scuole frequentate da alunni di famiglie benestanti. Sono molte poi le problematiche della scuola che non vengono affrontate da questo disegno di legge.
Il 19 maggio 2014 il ddl 2994 denominato «La buona scuola» ha concluso il suo iter alla Camera dei deputati, apprestandosi ad affrontare quello in Senato, dove il cammino sarà più in salita. Al di là delle critiche ai singoli articoli e nonostante le modifiche apportate durante il dibattito parlamentare, ciò che non convince è la filosofia che sta dietro il ddl. Viene infatti stravolto il modello di scuola disegnato dalla Costituzione, perché ai valori di inclusività e di uguaglianza si sostituisce la competizione fra scuole, docenti, alunni.
Per ottenere i risultati migliori, le scuole – per esse i dirigenti scolastici – dovranno impegnarsi nella selezione dei migliori docenti, all’interno delle graduatorie di territorio, non si sa bene con quali competenze e sulla base di quali criteri. Sono evidenti i rischi di discrezionalità, di pressioni clientelari, di compressione della libertà di insegnamento.
Ogni singola scuola potrà godere delle risorse direttamente provenienti da privati: è stato scorporato dal testo il finanziamento del 5 per mille, ma resta lo «school bonus», cioè il credito di imposta del 65% delle erogazioni che potranno essere volontariamente versate da persone fisiche ed enti direttamente alla scuola scelta. È evidente che le risorse finanziarie più consistenti arriveranno alle scuole frequentate da alunni di famiglie benestanti. Le famiglie che vorranno servirsi delle scuole paritarie, otterranno un bonus di 400 euro l’anno, mentre queste scuole continueranno a godere dei finanziamenti di Stato.
Oltre alla necessità di reperire risorse economiche, al dirigente scolastico è affidata la valutazione dei docenti e l’eventuale dispensa dal servizio per giudizio negativo, «sentito il comitato di valutazione», integrato con la presenza di genitori e alunni. Non basta: all’interno delle scuole i singoli docenti saranno chiamati a competere e i migliori potranno accedere a premi stipendiali, sulla base della valutazione del solito dirigente scolastico.
Vengono depotenziati gli organi collegiali, ridotti ad una funzione consultiva, e vengono introdotti al loro interno soggetti economici del territorio.
Le risorse restituite dopo i tagli feroci della Gelmini sono poche e sul medio-lungo periodo gli investimenti rispetto al Pil diminuiscono, restando comunque notevolmente inferiori alla media di quelli dei Paesi dell’Unione europea.
Il problema precari è affrontato dividendo la platea degli aventi diritto a diverso titolo, ma soprattutto senza un piano pluriennale chiaro che preveda i tempi per l’esaurimento delle attuali graduatorie.
«La buona scuola» non tratta di revisione dei cicli, di innalzamento dell’obbligo scolastico, di ripristino di modelli di tempo pieno e tempo prolungato, di revisione dei Programmi in linea con le innovazioni e con l’assetto sempre più multiculturale della nostra società. Su troppi argomenti di natura organizzativa e di merito sono affidate deleghe in bianco al governo.
Nel ddl è espressa un’idea di autonomia che, anziché servire a realizzare esiti simili in situazioni difformi, con la possibilità di interventi perequativi dello Stato, ratifica le disuguaglianze e frantuma l’unitarietà del sistema di istruzione.
L’idea di scuola che dagli anni ’70 molti di noi hanno coltivato e tentato di realizzare è quella di un luogo ricco di relazioni, in cui l’istruzione non è separata dall’educazione, in cui gli alunni crescono e apprendono in forma collaborativa e vengono valutati non solo su «performance» di tipo strumentale, dove anche i docenti sono stimolati a migliorare le proprie capacità professionali, ad aggiornarsi, a praticare la collegialità e a diventare, tutti, più competenti. La scuola disegnata nel ddl, invece, toglie spazi alla collaborazione, isola, induce a valutare i docenti sulla base dei risultati conseguiti dagli alunni e non sui percorsi svolti per ottenerli.
L’idea contenuta nel ddl sembra la stessa che caratterizza il riformismo del governo Renzi: quello che privilegia le decisioni dell’esecutivo rispetto al coinvolgimento degli organi della partecipazione democratica.
Ciò provoca lo scontro con coloro che i cambiamenti dovranno poi gestire e applicare. Non è un caso che docenti titolari, anche anziani e addirittura in pensione, abbiano partecipato in massa, accanto a colleghi precari, a genitori e studenti, alla manifestazione del 5 maggio e che le iniziative di mobilitazione proseguano quotidianamente in tutto il Paese: tutti avvertiamo il rischio grave di una deriva mercantilista e di privatizzazione della istituzione a cui è affidato il futuro della formazione delle nuove generazioni.
(pubblicato su Confronti di giugno 2015)
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