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«Una riforma utile e necessaria»

by redazione

intervista a Stefano Ceccanti, costituzionalista

Il professor Ceccanti è docente di Diritto costituzionale italiano e comparato e di Diritto parlamentare all’Università La Sapienza di Roma ed è stato senatore del Pd nella scorsa legislatura. Lo abbiamo intervistato sulla riforma costituzionale all’esame del Parlamento e sull’Italicum, la legge elettorale approvata all’inizio di maggio.

Professor Ceccanti, quali sono a suo giudizio i principali vantaggi della riforma costituzionale che propone il governo?

Questa riforma risponde a due esigenze di fondo. La prima si collega alla forma di governo: è irrazionale avere un’elezione di due camere diverse che incidono entrambe sulla formazione dell’esecutivo, perché i risultati elettorali possono dare esiti diversi, anche qualora si votasse con un sistema identico per entrambi i rami del Parlamento. Questo vale a maggior ragione oggi che l’elettorato è diventato molto più mobile, ma anche in passato – nel ‘94, nel ‘96 e nel 2006 – abbiamo visto risultati diversi tra Camera e Senato. Si tratta quindi di una cosa palesemente insensata, che bisogna rimuovere. Il secondo motivo per cui va fatta la riforma è questo: oggi la Corte costituzionale è costretta a perdere metà del suo tempo per dirimere i conflitti tra centro e periferia. In uno Stato fortemente decentrato non c’è modo di scrivere gli elenchi di materie fra Stato e Regioni in modo tale che non ci sia comunque qualche forma di sovrapposizione. Nel dibattito sulla riforma costituzionale probabilmente si sottolinea troppo l’importanza della modifica degli elenchi di competenza: un aspetto positivo, ma che risolve solo fino a un certo punto. A me invece sembra che il punto chiave della riforma sia il fatto di prevedere una composizione del Senato che rappresenta gli enti territoriali: è proprio questo che serve a risolvere i conflitti tra Stato e Regioni.

Quindi sbaglia chi vede come un pericolo per la democrazia la riforma del Senato e chiede di conservarne l’elezione diretta?

Questa richiesta non ha molto senso, perché l’elezione diretta serve per la prima camera, ossia per eleggere i rappresentanti che poi danno la fiducia al governo. Una seconda camera (cioè il Senato) ha senso di esistere solo se è composta – come appunto prevede il testo in discussione – dai rappresentanti delle istituzioni territoriali. I consiglieri regionali devono sentirsi rappresentati da coloro che mandano in Senato. Se così non fosse, tanto varrebbe sopprimerlo. Ma sopprimendolo non risolveremmo il problema dello scontro tra centro e periferia dinanzi alla Corte costituzionale. Avere un Senato composto prevalentemente da legislatori regionali è l’unico modo per responsabilizzare nazionalmente chi fa le leggi nelle Regioni e quindi «sgonfiare» questa conflittualità.

Dopo la rottura del cosiddetto «patto del Nazareno», si è deciso di approvare l’Italicum a colpi di fiducia e solo con i voti della maggioranza: era l’unica strada oppure si potevano trovare altre soluzioni?

Non dobbiamo scordarci che la Camera dei deputati ha un’anomalia: lì, a differenza del Senato, le leggi elettorali si possono votare a scrutinio segreto, quindi il problema di fondo è che si rischiava di avere votazioni con persone che non «mettono la faccia» sulle decisioni che prendono. E comunque la fiducia è stata posta sul testo che originariamente era stato concordato con Forza Italia. La votazione finale poi non è stata condivisa da quel partito, ma il testo era esattamente quello che era stato precedentemente concordato. Infatti Forza Italia non ha rotto il patto perché non gli stava più bene il contenuto nel merito, ma perché non è stato raggiunto l’accordo per eleggere il presidente della Repubblica. A quel punto si poteva scegliere di non fare più la riforma elettorale, accettando di dare a una forza politica minoritaria il potere di veto per bloccare una riforma che invece era necessaria. L’altra possibilità era blindarsi all’interno della maggioranza e fare una riforma solo di maggioranza nei contenuti. La terza possibilità, quella che è stata messa in atto, è a mio avviso la soluzione più logica: votare appunto il testo che era stato condiviso con l’opposizione.

Non era quindi possibile accogliere alcune richieste delle opposizioni o della minoranza del Partito democratico?

Un emendamento chiave di cui si discuteva – e che rischiava di passare a scrutinio segreto – intendeva ripristinare le coalizioni. Quando voti per il Comune o la Regione hai le coalizioni, però hai anche l’elezione diretta del vertice dell’esecutivo e qualsiasi tentativo di abbatterlo porta a nuove elezioni. Quindi hai un sistema elettorale che fa vincere più partiti in alleanza, ma in compenso hai una forma di governo blindata. Siccome a livello nazionale non puoi blindare il governo, prevedendo che qualsiasi cambio di presidente del Consiglio porti a elezioni anticipate (altrimenti il sistema sarebbe troppo rigido, si comprimerebbero troppo le prerogative del Parlamento, soprattutto della maggioranza che in casi limite deve poter sostituire il suo premier), devi avere un sistema elettorale più unificante: quindi la lista anziché la coalizione. Far passare l’emendamento che riportava dentro le coalizioni significava in realtà snaturare buona parte degli effetti di stabilizzazione che questa legge elettorale ha invece introdotto.

E per quanto riguarda le preferenze? Si chiedeva di diminuire il numero di «nominati»…

Finché si vota per un Comune medio-piccolo, è possibile avere un rapporto diretto fra candidati che chiedono le preferenze e singoli elettori, ma quando ampliamo di molto le circoscrizioni il candidato non può essere eletto senza avere una forte organizzazione di corrente o di interessi che lo sostenga, perché per fare la campagna elettorale ha bisogno di un’organizzazione centrata su di lui. Quindi, man mano che abbiamo livelli di complessità crescente, le preferenze si riducono ad un rapporto di forza tra correnti e gruppi di interesse: non c’è reale potere di scelta dell’elettore. La legge ha cercato un punto di equilibrio tra l’esigenza di esprimere le preferenze e il fatto che ci sia comunque anche un minimo di forza del partito come tale – e non solo delle correnti o dei gruppi organizzati – nell’arrivare a scegliere gli eletti. Io avrei preferito che le preferenze non ci fossero affatto e avrei fatto però una legge che nella fase precedente alle elezioni incentivasse a fare le primarie per selezionare i nomi da mettere nelle liste bloccate. In questo modo il conflitto interno a un partito si regola prima delle elezioni, non durante. Il momento elettorale deve servire a regolare i conflitti tra partiti, non nei partiti.

intervista a cura di Adriano Gizzi

(pubblicato su Confronti di giugno 2015)

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