di don Cristiano Bettega (responsabile dell’Ufficio per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Conferenza episcopale italiana)
«Era ora!». Quante volte, di fronte a gesti attesi, desiderati, preparati e richiesti magari da molto tempo, abbiamo esclamato che «era ora» che quel gesto avvenisse, che quella parola fosse pronunciata, che quegli occhi si incontrassero e quelle mani si stringessero? A Torino, la mattina del 22 giugno scorso, nessuno – almeno al microfono – ha detto che era ora; tutti però lo abbiamo sentito pronunciare dal cuore, tutti lo abbiamo letto sul volto del vicino, tutti siamo usciti dal tempio valdese convinti che davvero era ora che quella soglia fosse finalmente varcata.
Un particolare degno di sottolineatura, a mio avviso, e neanche poi tanto secondario, è il fatto che in quell’oretta siamo riusciti tutti a imparare qualcosa, se soltanto ne abbiamo avuto la volontà. Le testate di quei giorni si sono prodigate – e giustamente! – nell’affermare che dopo otto secoli era la prima volta che un papa entrava in una chiesa valdese, che l’avvenimento era di quelli che segnano la storia, che le attese erano tante e giustificate. Tutto vero. Ma c’è qualcosa in più, un particolare appunto, assolutamente da non perdere: a Torino i cristiani, tutti i discepoli del Cristo, hanno imparato uno stile. Non tanto lo stile dell’ecumenismo, però, ma piuttosto lo stile del discepolo autentico di Gesù di Nazareth, per il quale la ricerca di una comunione sempre più vera deve essere come l’aria che respira e come il pane che mangia ogni giorno.
Perché? Almeno per tre motivi, io credo. Innanzitutto perché a Torino è cambiato il linguaggio; anzi, ha ricevuto conferma un certo tipo di linguaggio del quale gli incontri ecumenici di questi ultimi anni stanno diventando testimoni e sostenitori. Chiamare e sentirsi chiamare «fratello», da parte di chi fino a poco tempo fa era considerato al massimo «l’altro», non ha avuto nemmeno una vibrazione di formalità, neanche una. Il clima fatto di canti, di benedizione, di sorrisi e soprattutto di un abbraccio convinto ha dato all’appellativo «fratello» tutta la sostanza che meritava. Perché la carità non può essere ipocrita, direbbe san Paolo (Rm 12,9).
Un secondo motivo che rafforza lo stile a cui è chiamato il discepolo è direttamente collegato al primo: se due uomini si parlano da fratelli, coerenza vuole che si chiedano anche scusa. Ebbene, quella richiesta del papa, «in nome del Signore Gesù Cristo, perdonateci!», dà la misura del punto al quale può e deve spingersi la relazione tra fratelli. E sono convinto che una parola così crea mentalità, scioglie tensioni accumulate da secoli, apre strade nuove a chi cerca di prendere sul serio la chiamata alla sequela di Cristo. Ma ancora di più fa spazio a Dio, «che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo», come direbbe ancora Paolo (2Cor 5,18). E se gli uomini lasciano finalmente che Dio entri tra le loro discussioni, niente resta più come prima.
E infine c’è un terzo motivo che mi fa pensare che a Torino i cristiani abbiano ricevuto una lezione di stile. Ed è il fatto che si abbia avuto il coraggio di andare al cuore delle cose, di mettere sul tavolo gli argomenti chiave del dialogo ecumenico: cosa vuol dire essere Chiesa e celebrare l’Eucaristia. Credo che nel rispondere a queste istanze si giocherà la nostra credibilità; ma, ancora una volta, non la credibilità dell’ecumenismo, o non soltanto quella, ma soprattutto la credibilità dei cristiani, di tutti coloro che si sentono ripetere di non amare «a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità» (1Gv 3,18).
Uno stile, dunque, abbiamo visto a Torino; un incontro messo in calendario ad inizio estate, quasi a dar corpo al desiderio di tutti: che segni l’inizio di una stagione nuova, che sia capace di segnare il passo e di portare frutti buoni. E davvero – insisto! – non è stato lo stile dell’ecumenismo, non si è trattato semplicisticamente di un bell’incontro ecumenico tra la Chiesa valdese e la Chiesa cattolica: sarebbe riduttivo concludere così. No, quello di Torino è stato un incontro tra cristiani, che ha ridato il «la» per far ritrovare ai discepoli del Cristo la giusta intonazione. A Torino, insomma, abbiamo vissuto la Chiesa: una, santa, cattolica e apostolica. Il compito di tutti, allora, è di… imparare lo stile!
(pubblicato su Confronti di luglio/agosto 2015)