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Il viaggio papale in un Paese tormentato

by redazione

di Luigi Sandri (inviato di Confronti a Sarajevo)

Francesco il 6 giugno ha visitato Sarajevo, invitando le tre etnie (bosgnacchi, serbi e croati) e i seguaci delle tre fedi principali (musulmani, ortodossi e cattolici) a superare il trauma della guerra civile di vent’anni fa e a vivere in pace. Incombono però ferite ancora aperte, problemi irrisolti e sfide difficili.

«Mir nama», in serbo-croato «Pace a noi». Con questo titolone in prima pagina, domenica 7 giugno, il quotidiano di Sarajevo Oslobodenje («Liberazione») riassumeva il senso della visita, il giorno precedente, del papa alla capitale bosniaca. Titolo che traduce bene le parole e i gesti con i quali Francesco ha costellato il suo pellegrinaggio, all’insegna del motto «Mir vama» («Pace a voi»). Da qui il gioco di parole del giornale, come per dire: il pontefice ha fatto la sua parte, adesso sta a noi accogliere davvero il suo pressante invito alla riconciliazione.

Il singolare «puzzle» costituzionale e geopolitico bosniaco

Non appena sbarcato, il papa ha ringraziato «i membri della Presidenza della Bosnia ed Erzegovina, ed il presidente di turno, Mladen Ivanic». Cos’è questo strano «turno»? Questo particolare ci aiuta a delineare, in breve, la complessità del paese. Nel contesto dalla dissoluzione della Jugoslavia socialista, l’avvio dell’indipendenza della Bosnia ed Erzegovina, infatti, è stato segnato dalla tragedia dell’assedio di Sarajevo. Nel febbraio del 1992 il governo bosniaco, in mano ai bosgnacchi (musulmani), decise un referendum sull’indipendenza, e malgrado l’opposizione dei serbi lo fece svolgere a fine mese. Il 64% dei votanti disse «sì». La risposta dei serbo-bosniaci fu che la loro armata il 5 aprile 1992 pose l’assedio alla capitale, che si protrasse fino a tutto il 1995, con uno strascico per altri due mesi: fu più lungo dei pur lunghi assedi che, in Europa, caratterizzarono la Seconda guerra mondiale. In quegli anni, oltre alle atrocità serbe (per il massacro di Srebrenica, vedi Confronti di gennaio 2013) ve ne furono di croati verso bosgnacchi, e la distruzione, da parte dei croati, del Ponte Vecchio di Mostar; e violenze di bosgnacchi contro serbi. Infine, nell’estate 1995 bombardamenti della Nato sulle forze serbo-bosniache e l’intervento dell’Onu costrinsero a porre fine alla guerra.

Poi, nel novembre di quello stesso anno, l’accordo di Dayton (Usa) portò alla creazione della Repubblica federale della Bosnia ed Erzegovina, con un parlamento centrale, e a sua volta costituita da due Entità, ciascuna con un proprio parlamento e governo: la Federazione croato-musulmana (51% del territorio) e la Repubblica serba della Bosnia-Srpska (49% del territorio). La presidenza centrale della Federazione è composta da tre membri eletti in rappresentanza delle tre etnie, bosgnacchi musulmani, croati cattolici e serbi ortodossi (ecclesiasticamente legati, questi, al patriarcato di Pec-Belgrado). I tre, a turno, ogni otto mesi, guidano la presidenza centrale. Questa intricata intelaiatura fino ad oggi ha retto, e non è cosa da poco; ma rancori mai sopiti potrebbero in ogni momento riemergere.

Vi è poi il fatto che praticamente nessuno dei responsabili della guerra degli anni Novanta, ha mai fatto un esplicito mea culpa e, anzi, qualcuno è stato considerato un eroe. Per tale motivo, alla vigilia dell’arrivo del papa a Sarajevo, un gruppo di intellettuali bosniaci gli aveva scritto una lettera aperta, ringraziandolo moltissimo della sua imminente visita, ma anche sottolineando come purtroppo nel paese, durante il conflitto di vent’anni addietro, la religione fosse stata accampata come pretesto «per seguire interessi particolari di conquistatori spietati», e per favorire un nazionalismo esasperato. La lettera puntualizza poi: «La Bosnia-Erzegovina necessita di tutto l’aiuto possibile sul percorso, lento e tortuoso, del ripristino della fiducia tra i diversi gruppi etnici che compongono il paese. Il confronto con le atrocità commesse durante la guerra rappresenta l’elemento chiave di questo processo. Ed è possibile soltanto a patto di smettere di giustificare e negare crimini commessi dai membri del “nostro” gruppo e iniziare a riconoscere e condannare in modo sincero tali crimini. Un confronto del genere può inoltre poggiare soltanto sulla responsabilità morale e legale. Noi, invece, siamo ancora testimoni di glorificazioni di coloro che vengono lodati come eroi nazionali e come martiri, pur essendo già stati accusati e condannati per crimini di guerra».

Ed, esemplificando, la lettera ricordava che in Croazia un vescovo e un superiore francescano avevano accolto con tutti gli onori «Dario Kordic, condannato per crimini di guerra, e recentemente scarcerato da una struttura internazionale dopo avere scontato i tre quarti della propria condanna a venticinque anni». E questo signore aveva partecipato alla messa, e gli era stato permesso di «tenere un discorso dall’altare della chiesa. Non una singola parola di rimorso. Nessuna catarsi… La gente di altre etnie percepisce questo come una forma di negazione della loro sofferenza e la celebrazione dei crimini commessi contro di loro. Le loro ferite non solo non si rimarginano, ma si riaprono».

Su questo sfondo religioso-politico si colloca il discorso di Bergoglio all’aeroporto di Sarajevo: «È per me motivo di gioia trovarmi in questa città che ha tanto sofferto per i sanguinosi conflitti del secolo scorso e che è tornata ad essere luogo di dialogo e pacifica convivenza… Sarajevo e la Bosnia ed Erzegovina rivestono uno speciale significato per l’Europa e per il mondo intero. Da secoli in questi territori sono presenti comunità che professano religioni diverse e appartengono a diverse etnie e culture, ciascuna delle quali è ricca delle sue peculiari caratteristiche e gelosa delle sue specifiche tradizioni». Il papa ricorda poi che, per la compresenza in città di sinagoghe, chiese e moschee, Sarajevo, «crocevia di culture, nazioni e religioni», fu chiamata Gerusalemme d’Europa. Perciò, con «un dialogo paziente e fiducioso… abbiamo bisogno di comunicare, di scoprire le ricchezze di ognuno, di valorizzare ciò che ci unisce e di guardare alle differenze come possibilità di crescita nel rispetto di tutti».

«Sono venuto come pellegrino di pace e di dialogo, diciotto anni dopo la storica visita di san Giovanni Paolo II, avvenuta a meno di due anni dalla firma degli Accordi di pace di Dayton. Sono lieto di vedere i progressi compiuti, per i quali occorre ringraziare il Signore e tante persone di buona volontà. È però importante non accontentarsi di quanto finora realizzato, ma cercare di compiere passi ulteriori per rinsaldare la fiducia e creare occasioni per accrescere la mutua conoscenza e stima… La Bosnia ed Erzegovina è parte integrante dell’Europa; i suoi successi e i suoi drammi si inseriscono a pieno titolo nella storia dei successi e dei drammi europei, e sono nel medesimo tempo un serio monito a compiere ogni sforzo perché i processi di pace avviati diventino sempre più solidi e irreversibili. In questa terra, la pace e la concordia tra croati, serbi e bosgnacchi, le iniziative volte ad accrescere ulteriormente le relazioni cordiali e fraterne tra musulmani, ebrei, cristiani e altre minoranze religiose, rivestono un’importanza che va ben al di là dei suoi confini».

Il papa si è poi rivolto ai responsabili politici, «chiamati al nobile compito di essere i primi servitori delle loro comunità con un’azione che salvaguardi in primo luogo i diritti fondamentali della persona umana, tra i quali spicca quello alla libertà religiosa». Ed ha concluso: «La Santa Sede auspica vivamente che la Bosnia ed Erzegovina, con l’apporto di tutti, dopo che le nuvole nere della tempesta si sono finalmente allontanate, possa procedere sulla via intrapresa, in modo che, dopo il gelido inverno, fiorisca la primavera. E si vede fiorire qui la primavera».

L’incontro ecumenico e interreligioso: eco di speranze e di gravi problemi

Tra i vari incontri che hanno caratterizzato l’intensa giornata bosniaca di Bergoglio, particolarmente emozionante per lui è stato ascoltare le testimonianze di tre persone croate – un prete, una suora e un religioso francescano – che, nella guerra civile di fine Novecento, per un certo tempo furono rapite da serbi ortodossi, o da miliziani musulmani, subendo dolorosissime violenze.

Molto atteso era, ovviamente, l’incontro interreligioso, in un paese «mosaico» dove i musulmani sono quasi la metà dei 3,8 milioni di abitanti; seguono gli ortodossi, poi i cattolici, piccole minoranze protestanti, e la minuscola ma culturalmente assai significativa minoranza ebraica. La religione maggiormente ripresasi dopo la guerra è quella musulmana: a Sarajevo si vedono imponenti moschee costruite negli ultimi anni dall’Arabia Saudita, e cresce l’influenza della Turchia. Fonti serbe sostengono che aumenta nel paese l’arrivo di elementi salafiti, e di gruppi fondamentalisti provenienti anche dal Medio Oriente e dalla Cecenia.

Nei loro interventi i rappresentanti delle varie confessioni hanno illuminato il composito prisma bosniaco. Il cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Vrhbosna [Sarajevo], ha affermato: «In questa regione il dialogo non ha alternative. Ce lo insegna l’esperienza troppo amara della recente guerra con conseguenze terribili». Ha poi ricordato che nel 1997 è stato fondato il Consiglio interreligioso della Bosnia ed Erzegovina, che continua ad operare. Non ha fatto cenno, il porporato, ad un problema doloroso della sua Chiesa: i cattolici in Bosnia erano ottocentomila all’inizio della guerra di fine secolo, ed ora sono la metà: le conseguenze del conflitto, la crisi economica che grava anche sul paese, le ferite morali provocate dagli scontri inter-etnici e non rimarginate hanno spinto molti cattolici ad emigrare.

Poi il vescovo Grigorije, responsabile della diocesi ortodossa della quale fa parte Sarajevo, ha espresso «gioia per il fatto che Francesco, come capo della nostra Chiesa (cattolica) sorella e vescovo di Roma, visiti il nostro paese». Quindi ha ammesso con franchezza: «Noi, figli della Chiesa di Dio, dovremmo essere preoccupati e pieni di vergogna per il fatto che, nel nostro paese, i cristiani hanno ucciso cristiani e non cristiani… Il nostro grande scrittore e premio Nobel [per la letteratura, nel 1961], Ivo Andric, ha descritto una terribile caratteristica del nostro paese: “Qui ci sono più persone disposte ad uccidere e ad essere uccise rispetto ad ogni altro paese, slavo e non, sia esso più vasto per estensione o per popolazione”. Ma in questa realtà inspiegabile la Bosnia può essere incredibilmente bella».

Salutando il papa a nome della comunità musulmana Husein Kavazovic, rais-al ulamà (in arabo, presidente degli ulema), ha puntualizzato: «Il genocidio subìto dai musulmani bosniaci, ci obbliga a riesaminare la nostra fede e la nostra missione». E, venendo ai problemi incombenti: «Sembrerebbe che per le persone di fede sia diventato più importante sostenere i rispettivi blocchi politici, militari ed economici, anziché testimoniare la Verità e aiutare il popolo non con il potere ma con l’amore e il conforto».

Un grazie al papa anche da Jakob Finci, presidente della Comunità ebraica in Bosnia ed Erzegovina: «A Sarajevo la nostra comunità vive in pace e armonia con le altre comunità religiose e le chiese, da 450 anni, e con l’intenzione di voler rimanere qui, almeno per i prossimi 450 anni, perché non cerchiamo e non abbiamo una seconda patria. Non è stato facile sopravvivere 450 anni nei Balcani, definiti da molti “una polveriera”; tuttavia con la comprensione, la buona volontà e l’aiuto di Dio tutto è possibile». E, ha concluso, anche se persistono problemi, perché «qui non è tutto latte e miele, stiamo cercando di risolverli in comune, consapevoli che è possibile sopravvivere in questa splendida parte del globo solo se lavoriamo insieme».

(pubblicato su Confronti di luglio/agosto 2015)

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