di Brunetto Salvarani
Per capire qualcosa dell’eccezionalità dell’evento del 22 giugno, parto con una memoria personale: ripenso a quando, fine anni Settanta, con un gruppetto di amici della parrocchia accompagnati dal nostro frate di riferimento, in un viaggio a Ginevra decidemmo di entrare a visitare la chiesa di Giovanni Calvino. Di fronte a tale ipotesi, accadde qualcosa da noi ragazzi del tutto imprevisto: il buon frate sbiancò, si fece muto, entrammo con lui visibilmente imbarazzato, e riprese a parlare solo dopo essere uscito. Guardandoci di traverso, stupito che non capissimo quanto grave fosse ciò che avevamo fatto, e l’avevamo costretto a fare. Negli anni seguenti, avrei raccolto ben altre testimonianze del dileggio sistematico e popolare dei cattolici nei confronti dei valdesi e di altre realtà di matrice protestante, fino agli anni del Vaticano II. Ma todo cambia, e fortunatamente non sempre in peggio. L’ecumenismo, dono di Dio al cristianesimo novecentesco, si è progressivamente fatto strada: troppo lentamente, secondo qualcuno, eppure riuscendo a favorire la creazione di un clima (almeno) di rispetto reciproco fra le Chiese.
È questo il contesto in cui abbiamo registrato un’altra «prima volta». Una delle tante, ormai, cui ci ha abituato il pontificato di Bergoglio. Eppure, la sua visita al Tempio valdese di Torino, mai avvenuta da parte di un papa dall’età di Valdo, oltre otto secoli fa, ha davvero il sapore della storia. Di un punto di non ritorno. In effetti, la sensazione che Francesco legga l’ecumenismo con uno sguardo particolarmente strategico, come dimostrano fra l’altro l’acclarata familiarità con il patriarca di Costantinopoli Bartholomeos, abbondantemente citato nella recente enciclica Laudato si’, e la visita all’amico pastore Traettino e alla chiesa pentecostale della Riconciliazione del luglio dello scorso anno a Caserta, è diffusa. «L’impegno ecumenico risponde alla preghiera del Signore Gesù che chiede che tutti siano una sola cosa (Gv 17,21). […] Dobbiamo sempre ricordare che siamo pellegrini, e che peregriniamo insieme. A tale scopo bisogna affidare il cuore al compagno di strada senza sospetti, senza diffidenze, e guardare anzitutto a quello che cerchiamo: la pace nel volto dell’unico Dio». Così si legge, al n. 244, nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, uscita nel 2013 e subito giudicata come un programma di governo. Vi compaiono ben tre paragrafi sul dialogo ecumenico: fino a sostenere che «l’unità dello Spirito armonizza tutte le diversità», e sulla possibilità di un patto culturale «che faccia emergere una diversità riconciliata», citando un documento dei vescovi congolesi del 2012. Perché le divisioni nella «famiglia cristiana» non sono una ferita qualsiasi ma la ferita, per Francesco che iniziò il suo ministero autodefinendosi non papa, ma, appunto, vescovo di Roma; così, recarsi a visitare dei fratelli evangelici metodisti e valdesi in una delle loro sedi storiche è un gesto capace di riempire il futuro, accendendo prospettive in altri tempi remote. Ma dice anche della semplicità di chi, da credente, è capace di compiere un passo fondamentale, nel solo nome di quel Gesù Cristo che unisce, senza peraltro negare la storia che ha diviso. Certo, si tratta di una comunione ancora in cammino, come ha ammesso anche a Torino, ma l’unità si fa in cammino, e «con la preghiera, con la continua conversione personale e comunitaria e con l’aiuto dei teologi, noi speriamo, fiduciosi nell’azione dello Spirito Santo, possa diventare piena e visibile comunione nella verità e nella carità».
Sì: entrando in quel Tempio, quest’uomo venuto quasi dalla fine del mondo non ha solo varcato un muro alto otto secoli, ma anche mostrato di saper riconoscere quel pluralismo delle religioni e delle culture che in questo Paese, purtroppo, si fa ancora fatica ad ammettere: da parte delle istituzioni, ma anche del sentire comune. E l’ha fatto ricorrendo al suo linguaggio, quello di un pastore e di un credente che ritiene naturale tendere la mano ai suoi fratelli e sorelle nella fede. Così, del resto, il pastore valdese Paolo Ribet, l’aveva accolto, dopo aver dichiarato i suoi dubbi su come chiamarlo: «Caro fratello Francesco, benvenuto!». Mentre l’assemblea aveva appena finito di intonare un canto in spagnolo, Cada cosa en la vida, tratto dal Qohelet. Che sentenzia: «C’è un tempo per abbracciarsi, e un tempo per astenersi dagli abbracci». Questo è il tempo degli abbracci: e tutto lascia prevedere che possa durare a lungo. Anche se quella stessa, composta, assemblea è scoppiata a ridere, quando è stata citata una frase di Bergoglio: «L’unità dei cristiani non sarà il frutto di raffinate discussioni teoriche. Verrà il Figlio dell’Uomo e ci troverà ancora nelle discussioni…».