di Luigi Sandri
L’Assemblea che in ottobre (4-25) ha riflettuto sulla famiglia ha raggiunto alcune conclusioni aperte al futuro ma, su molti temi che hanno visto i «padri» divisi, ha confermato visioni pastorali arcaiche, respinte da molti cattolici. Il chiaroscuro del Sinodo accelera perciò la necessità di un nuovo e rappresentativo Concilio.
Sarà il tempo a dire se le conclusioni del Sinodo dei vescovi dedicato alla famiglia avranno portato pace e chiarezza all’interno della Chiesa cattolica romana, o se l’audacia su alcuni temi, la reticenza e le contraddizioni su altri, e l’armistizio su altri ancora – come la non esplicita ammissione alla comunione delle persone divorziate e risposate civilmente – riaprirà contrasti dottrinalmente irrisolti e dibattiti laceranti su problemi pastorali assai sentiti dalle persone direttamente interessate e dagli stessi parroci chiamati a «discernere caso per caso». E perciò papa Francesco, da una parte rinfrancato per alcuni «consigli» incoraggianti giuntigli da un’Assemblea consultiva che sembra aver compreso il suo leit-motiv sulla misericordia, ma anche reso pensoso per altri pesanti «no» o «ni», nella sua esortazione apostolica post-sinodale dovrà trovare una sintesi, aperta al futuro, tra le strade nuove imboccate e i problemi semplicemente rinviati e le parole attese ma non dette.
Il dono della famiglia
Iniziato il 4 ottobre, e concluso il 25 del mese, l’Assemblea ordinaria del Sinodo era come la seconda tappa di un discorso che era cominciato nell’ottobre del 2014, con un Sinodo straordinario: due aggettivi che, in pratica, significano maggiore o minore presenza numerica di vescovi. A parte il peso della Curia romana e dei patriarchi orientali, che rimane sempre identico, e quello dei delegati eletti dalla Usg, l’Unione romana dei superiori generali (dieci nel primo caso, tre nel secondo), la differenza sostanziale tra i due tipi di Sinodo è il numero più o meno grande di vescovi. Al Sinodo straordinario prendono parte i presidenti delle Conferenze episcopali; nell’altro, invece, ogni Conferenza elegge di volta in volta i suoi rappresentanti, in base al numero dei suoi vescovi: uno se ne ha meno di venticinque, due se meno di cinquanta, tre se meno di cento, quattro se più (così Stati Uniti, Brasile e Italia avevano quattro delegati).
Oltre al dibattito in aula, i vescovi si sono suddivisi nei tredici circuli minores, raggruppamenti linguistici di una ventina di persone che dunque permettevano uno scambio più facile e approfondito dei vari temi. Le relazioni conclusive di tali gruppi sono state determinanti per permettere alla commissione di redazione (dieci «padri») di redigere la Relatio finalis che, anch’essa discussa in aula, è stata rivista tenendo conto delle varie proposte di modifica. Infine, i suoi 94 paragrafi sono stati votati ad uno ad uno; per essere approvati dovevano ottenere non solamente la maggioranza assoluta, ma i due terzi. I «padri» erano duecentosettanta, ma sabato 24 ottobre (giorno della votazione) ne mancavano cinque; la soglia dei due terzi era dunque 177.
«Padri», dicevamo: le «madri», parte sostanziosissima della famiglia, non erano previste; hanno deciso solo maschi e celibi. Tra assistenti, invitate, teologhe e coppie di sposi all’Assemblea erano presenti diverse donne, alcune delle quali hanno anche parlato in aula. Ma non avevano diritto di voto. I votanti erano tutti vescovi o presbiteri (i religiosi), ma con una significativa eccezione: Hervé Janson, priore generale dei Piccoli Fratelli di Gesù – fondati da Charles de Foucauld –, un religioso laico, cioè non prete. Commentando in conferenza stampa la sua presenza, fratel Hervé ha raccontato che, quando fu eletto dalla Usg, obiettò: «Ma io sono un laico. E allora perché al Sinodo non possono entrare, con diritto di voto, anche le donne?».
Altra distonia del Sinodo è stato il fatto che, di norma, non sono stati resi noti i nomi di chi ha detto questo o quello. Tale riserbo è stato ufficialmente motivato per garantire ai «padri» la massima libertà di parola, ed evitare pressioni. A proposito, un paragone aiuta a evidenziare l’insostenibilità di tale tesi: alla prima sessione del Vaticano II, nell’autunno del 1962, dominò lo stesso restrittivo criterio, voluto dalla Curia; ma le proteste dei giornalisti portarono infine Paolo VI, dalla seconda sessione in poi, a permettere di conoscere gli interventi praticamente integrali dei «padri» e il loro nome. È inconcepibile, nel mondo moderno, che si voglia nascondere il nome di un vescovo che – poniamo – nel Sinodo si è espresso a favore, o contro, l’amissione all’Eucaristia delle persone divorziate e risposate. Del resto, al Concilio il cardinale Alfredo Ottaviani, allora dominus del Sant’Uffizio, non temeva che tutti sapessero quanto egli – spesso in aspro contrasto con i «progressisti» – andava dicendo. Così funziona una Chiesa «normale»: occorre assumersi in pubblico le proprie responsabilità. Perciò alla Chiesa romana (e a tutti) sarebbe piaciuto sapere, ad esempio, che cosa dicesse in Sinodo, sui temi controversi, il cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Invece, a cinquant’anni dal Concilio, e dopo tanto invocare, con Francesco, parresìa – franchezza evangelica nel parlare – siamo ancora a questo punto.
Se il Catechismo viene contraddetto, ma solo in modo implicito
Dovremmo, ora, addentrarci nel dibattito sinodale e, infine, nel commento alla Relatio finalis. Impresa impossibile, in poche pagine. Diciamo che, pur denunciando le molte ferite che in tante parti del mondo soffrono le famiglie, il Sinodo ha lanciato un grande messaggio di speranza e di ottimismo: la famiglia – ha proclamato – resta un pilastro ineliminabile della società, e anche della Chiesa. Parole che sanno di coraggiosa sfida, pronunciate in un mondo dove più che di famiglia si dovrebbe parlare di famiglie. Esse, infatti, stanno diventando sempre più articolate per tipologia e composizione, in rapporto anche al contesto in cui vivono: New York, con la sua super-modernità di modelli nei rapporti uomo-donna, o uomo-uomo e donna-donna, è lontano anni-luce dalle tribù della foresta amazzonica o del bacino del Congo che vivono con i loro costumi ancestrali. O, anche, perfino nell’Italia «cattolica» in cinquant’anni sono avvenuti cambiamenti impensabili: nel 1956 il vescovo di Prato, Pietro Fiordelli, definì «pubblici peccatori» due battezzati che avevano osato sposarsi in municipio (fu per questo accusato di diffamazione e, portato in tribunale, perse il primo processo, ma vinse in appello). Adesso moltissime coppie, anche cattoliche, convivono tranquillamente senza essersi sposate né in municipio né in chiesa: e le famiglie, che qualche decennio fa avrebbero fatto fuoco e fiamme, accettano il dato di fatto, mentre i parroci sospirano ma, di solito, non si disperano.
Una tal situazione è diffusissima, almeno in Occidente (ma anche altrove, in contesti legati a radicate tradizioni culturali); e la Relatio non la demonizza: al contrario, apprezza l’amore della pur fragile coppia, però auspicando che l’unione iniziata porti piano piano alla decisione di sposarsi in Chiesa (nn. 70-71). Può sembrare poco, eppure documenta profondi cambiamenti pastorali (o dottrinali?); rimane però irrisolto un nodo di fondo, almeno per chi si riferisca, nella sua vita, al magistero della Chiesa, come in concreto espresso nel Catechismo varato nel 1997 da papa Wojtyla. Il quale afferma: quanti rifiutano di dare una forma giuridica e pubblica alla loro relazione non potrebbero, moralmente, avere rapporti sessuali: «L’atto sessuale si può avere solo nel matrimonio; al di fuori di esso costituisce sempre un peccato grave ed esclude dalla comunione sacramentale» (n. 2390). Date tali premesse, possono «convivere» tranquillamente Catechismo e Relatio?
La questione – minore, se si vuole, e tuttavia, per i nodi che implica, cruciale – dimostra ancora una volta come la distinzione, cara a Francesco, tra dottrina (i princìpi presentati come immutabili) e pastorale (la prassi, l’applicazione dei princìpi che può variare nelle concrete situazioni) sia quasi impossibile, e comunque debolissima. Ha scritto Alberto Melloni: «Il Sinodo ha distinto, con una superficialità impensabile dopo il Vaticano II, fra dottrina e pastorale, quasi che il principio pastorale fosse la confezione di una verità pietrosa e non la misura della intelligenza del cuore del Vangelo» (Corriere della sera, 23/10/15).
Un’altra questione – maggiore, questa – è quella che riguarda gli omosessuali. Sul giudizio da dare, in merito, l’Assemblea era profondamente divisa; impensabile, poi, per i «padri» africani (in particolare per Robert Sarah, un cardinale curiale proveniente dalla Guinea, i cui accenti infuocati sanno, ci sembra, di fondamentalismo), ammettere un modo di vivere la sessualità che nel loro continente è culturalmente inimmaginabile (e in alcuni paesi vige la pena di morte contro gli omosessuali, perché malgrado ogni stigma anche in Africa esistono!). Così, per evitare un trauma che sarebbe potuto sfociare in irreparabile dissenso dei vescovi africani, il Sinodo ha preso la salomonica decisione di bypassare la questione in sé, limitandosi a raccomandare alle famiglie che hanno un figlio gay o una figlia lesbica di trattarli con rispetto. Poi proclama «del tutto inaccettabile» l’equiparazione delle unioni omosessuali con il matrimonio (n. 76).
Sulla regolazione delle nascite, la Relatio cita l’enciclica Humanae vitae con la quale Paolo VI nel 1968 proibiva i contraccettivi, ma non ripete quella normativa, limitandosi a incoraggiare, per una regolazione responsabile delle nascite, «il ricorso ai metodi fondati sui ritmi naturali di fecondità» (n. 63). Ma, anche qui, vi è una reticenza bizantina: l’esplicito no alla contraccezione, proclamato dall’enciclica, e dal Sinodo taciuto, significa, oppure no, che esso, dottrinalmente e/o pastoralmente non è più vigente? Anche sulla questione del gender il Sinodo dice parole approssimative e con un sottofondo reazionario che porta a dipingere con toni grotteschi questa pur serissima problematica: «La ideologia del gender nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna. Essa prospetta una società senza differenze di sesso, e svuota la base antropologica della famiglia» (n. 8).
L’«armistizio» sulla comunione alle persone divorziate e risposate
Battaglia aspra – teologica, senza spada, eppure con parole acuminate – vi è stata al Sinodo sulla possibilità o meno di ammettere all’Eucaristia persone divorziate e risposate civilmente. La questione era già stata sollevata al Sinodo del 1980, anch’esso dedicato alla famiglia, senza arrivare a soluzione. Poi, nella Familiaris consortio, esortazione apostolica post-sinodale del 22 novembre 1981, Giovanni Paolo II aveva sì chiesto ai pastori di fare un «discernimento» perché – asseriva – un conto è il coniuge responsabile, con la sua condotta, del fallimento del matrimonio, e un conto quello innocente. Tuttavia, infine, le persone divorziate e risposate dovevano promettere di vivere come fratello e sorella per poter ricevere la comunione. Anche alcuni vescovi avevano criticato questa restrizione, irrealistica e crudele, ma Wojtyla e poi Ratzinger erano rimasti irremovibili. E però cresceva, nel mondo cattolico, il numero delle persone divorziate e risposate che, senza più attendere il semaforo verde da Roma, si comunicavano; e crescevano i parroci che davano ad esse l’Eucaristia.
D’altronde il 15 agosto scorso (ma reso noto l’8 settembre) con il motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus per la Chiesa latina, e uno analogo per le Chiese orientali, il papa aveva demandato ai vescovi il diritto-dovere di pronunciare la nullità di matrimoni, inficiati alla radice per vizi di forma e/o di sostanza, con una casistica assai ampia di motivi per dichiarare un matrimonio mai esistito. Con la sua decisione, Francesco depotenziava, in parte, il dibattito sinodale sui divorziati e, nel contempo, faceva un gesto corposissimo di riforma del modo di esercizio del primato petrino, appunto «restituendo» ai fratelli vescovi competenze che un tempo erano pur loro e che Roma, per motivi contingenti, a poco a poco aveva riservato a sé.
Questo lo sfondo alla discussione sinodale, assai tesa. Prima e durante il Sinodo alcuni vescovi hanno detto che in nessun modo si poteva dare la comunione a quelle persone «adultere»; sarebbe stato tradire il comandamento di Gesù che condanna chi viola l’indissolubilità del matrimonio. Altri ribattevano che, lasciando immutato il principio, occorreva valutare «caso per caso», soprattutto di fronte al coniuge innocente risposatosi civilmente. Infine la Relatio (vedi scheda in fondo) riprende nella sostanza la Familiaris consortio, senza però citarne la severissima restrizione finale. Ma il documento sinodale non dice affatto, in modo esplicito – come, forzando il testo, hanno invece scritto quasi tutti i media (tv e giornali) italiani – che in certi casi le persone divorziate e risposate possono accedere alla comunione. Dal numero 85 della Relatio si potrebbe forse dedurre tale conclusione, ritenendola implicita; ma, esplicita, il Sinodo non l’ha voluta trarre, ed è rimasto ambiguo (su un punto così decisivo!). E non per distrazione: il cuore del compromesso tra «conservatori» e «progressisti» – perché di compromesso, nel senso alto del termine, si è trattato – è consistito proprio in questo: non parlare in modo esplicito di possibilità della comunione eucaristica. Diversamente, il n. 85 non avrebbe mai ottenuto la maggioranza dei due terzi. E, del resto, anche così annacquato, è passato per un pelo: un voto, un solo voto, cioè 178. D’altronde, il compromesso riguarda un tema dirimente, che pende sull’intero pontificato bergogliano: ammettere esplicitamente alla comunione divorziati risposati civilmente avrebbe significato – secondo Müller, Sarah e seguaci – la rottura traumatica di una dottrina magisteriale pluricentenaria che diceva «no». Che la responsabilità di un «sì» se l’assumano, perciò, singoli vescovi e parroci, e giammai un Sinodo!
Anzi, il cardinale australiano George Pell, di Curia, noto «conservatore», ha ribadito che, nella Relatio, «la questione della comunione ai divorziati risposati non è stata nemmeno menzionata. L’eredità di Giovanni Paolo II rimane intatta»; e ha definito «un cavallo di Troia» per distruggere la dottrina quei «padri» che volevano bypassare il «no» di Wojtyla (Zenit, 27/10/15).
Dove non poté un Sinodo, potrà un Concilio?
Manovre, anche cardinalizie (come la lettera di una decina di porporati che, all’inizio dell’Assemblea, criticavano il papa che avrebbe modificato il regolamento del Sinodo per far infine vincere le tesi «progressiste») non sono riuscite a fermare del tutto un percorso che, nell’insieme, e malgrado evidenti e stridenti contraddizioni, va, sia pure solo in parte, nel senso voluto da Francesco. E tuttavia, le restrizioni e le reticenze della Relatio aprono non pochi problemi, dottrinali e pastorali, e dimostrano la debolezza intrinseca di un’Assemblea consultiva, e la sua «impossibilità» di compiere la necessaria transizione per fare davvero i conti con la modernità e con la visione della sessualità e della coppia che caratterizza oggi gran parte dei cattolici nel mondo intero.
Celebrando, il 17 ottobre, i cinquant’anni dalla creazione del Sinodo, Bergoglio ha levato un inno alla sinodalità come modo di essere costitutivo della Chiesa. Parole preziosissime che promettono un corso irreversibile per la Chiesa romana, e l’avvio di un reale inveramento della collegialità episcopale e del primato del «popolo di Dio» proclamati dal Vaticano II nella costituzione Lumen gentium.
Tuttavia, il discorso sulla sinodalità pronunciato da Francesco ci sembra piuttosto una «ouverture» che una conclusione. Infatti, la sua logica e intrinseca conseguenza è un’«opera»: un Concilio, non semplicemente un Sinodo. Fa piacere citare quanto detto in un circulus minor di lingua inglese (forse Charles J. Chaput, arcivescovo di Philadelphia, noto «conservatore»), a proposito della comunione alle persone divorziate e risposate: «La questione è dottrinale e quindi di competenza di un Concilio e non di un Sinodo». E perché, osserviamo, un Concilio? Se dopo due anni di studi e dibattiti (con la partecipazione incipiente del «popolo di Dio» attraverso due Questionari) un Sinodo arriva a risultati così modesti, e tribolati, figurarsi se dovesse affrontare – com’è ormai necessario – un altro nodo dirimente: lo status della donna nella Chiesa. Nodo quanto mai arduo perché, se si vuole andare alla radice del problema, si tratterebbe di rimettere in discussione il sacerdozio, in obbedienza a Gesù che mai parlò di esso, nemmeno per i maschi, e mai lo immaginò per la sua comunità come mediazione necessaria tra l’umanità e Dio; solo Lui è il Sacerdote, il mediatore – il ponte e la strada – tra Dio e noi. Egli parlò sempre di servizi, di ministeri. Allora, messo in discussione l’uomo-prete, lo sbocco finale non sarebbe la donna-prete, ma una Chiesa dove nei vari ministeri ordinati possano servire donne e uomini, celibi e sposati.
Ovviamente, solo un Concilio generale della Chiesa romana ha l’autorità per affrontare tale rivoluzionario passaggio; tuttavia, va aggiunto, un Concilio preparato da moltissimi dibattiti (sarà una festa, per la rete!) e finalmente composto non solo da vescovi, ma anche da robuste rappresentanze di presbìteri, di monaci, monache, religiosi, suore, laici uomini e donne (queste, soprattutto, che pur sono, seppure spesso ignorate, «l’altra metà della Chiesa»). Insomma, il fiore e il frutto della sinodalità dovrebbe essere, logicamente, un nuovo Concilio. Che si pone sulla scia del Vaticano II e raccoglie gli input migliori della Lumen gentium ma poi la oltrepassa. La questione donna, infatti, non è risolvibile con l’eredità dell’ultimo Concilio; tanto meno potrebbe affrontarla un Sinodo, o risolverla il papa ammettendo, ad esempio, le diaconesse. Essa è nelle mani dell’intero «popolo di Dio» e sarà quanto mai ardua: provocherà dibattiti appassionati e anche lacerazioni dolorose. Niente è sicuro, niente facile; nell’auspicato e necessario «Vaticano III» i custodi del potere sacro faranno un’opposizione asperrima. Ma chissà che infine non venga alla luce una Chiesa antichissima e nuovissima, cioè più profumata di Vangelo.
(pubblicato su Confronti di novembre 2015)
SCHEDA. DIVORZIATI RISPOSATI E «DISCERNIMENTO» DA PARTE DEI PASTORI
«84. I battezzati che sono divorziati e risposati civilmente devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili, evitando ogni occasione di scandalo… La loro partecipazione può esprimersi in diversi servizi ecclesiali: occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate. Essi non devono sentirsi scomunicati…».
«85. San Giovanni Paolo II ha offerto un criterio complessivo, che rimane la base per la valutazione di queste situazioni: “Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni. C’è infatti differenza tra quanti sinceramente si sono sforzati di salvare il primo matrimonio e sono stati abbandonati del tutto ingiustamente, e quanti per loro grave colpa hanno distrutto un matrimonio canonicamente valido. Ci sono infine coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell’educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido” (Familiaris consortio, 84). È quindi compito dei presbìteri accompagnare le persone interessate sulla via del discernimento secondo l’insegnamento della Chiesa e gli orientamenti del Vescovo…».
«86. Il percorso di accompagnamento e discernimento orienta questi fedeli alla presa di coscienza della loro situazione davanti a Dio. Il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere. Dato che nella stessa legge non c’è gradualità (cf. FC, 34), questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa».
(dalla «Relatio finalis»)