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A Gerusalemme violenza chiama violenza

by redazione

di Luigi Sandri

L’intifada dei coltelli – ma per i giovani palestinesi è l’intifada di al-Quds – è indifendibile. Tale scelta nasce dalla desolata constatazione della prepotenza del governo Netanyahu, che continua l’espansione degli insediamenti nei Territori occupati, e dalla mancanza di credibilità politica e morale dei dirigenti di al-Fatah e di Hamas. Il servizio sul Medio Oriente disponibile integralmente nella versione cartacea di Confronti – gennaio 2016) comprende anche un’intervista al giornalista palestinese Samir Qariouti e a Victor Magiar, assessore alla cultura dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, tra i fondatori del “Gruppo Martin Buber – Ebrei per la pace”.

Il problema israelo-palestinese rischia di scomparire, in Italia e in generale in Occidente, dalla considerazione del mondo politico e dell’opinione pubblica, l’uno e l’altra tutti presi dall’incastro siriano sempre più aggrovigliato, dalla battaglia contro il cosiddetto Stato islamico (l’Isis e, nell’acronimo arabo, Daesh) e dall’altissima tensione tra Mosca ed Ankara, iniziata a fine novembre con l’abbattimento, da parte turca, di un aereo russo (nei cieli della Turchia, secondo Ankara, in quelli della Siria, secondo il Cremlino). E però quel nodo esiste, anche se non ci si pensa e, lasciato irrisolto, avvelenerà l’atmosfera dell’intero Medio Oriente, più di quanto potrebbe provocare una micidiale e straripante arma nucleare, batteriologica o chimica. Stanti così le cose, sarà questo 2016 l’anno nel quale le parti interessate si decideranno finalmente a imboccare con decisione la strada che porti a una pace giusta ed equa a Gerusalemme e dintorni?

Intifada “dei coltelli” o di “al-Quds”, Gerusalemme la Santa?

Ai primi di ottobre è iniziato, prima come fenomeno isolato a Gerusalemme-est e nei dintorni, e poi come scelta contagiosa, quella che gli israeliani hanno denominato intifada dei coltelli, mentre i palestinesi la chiamano intifada di al-Quds, la Santa, il nome arabo della città di Gerusalemme. Questa etichetta viene dal fatto che la scintilla scatenante la rivolta è derivata dall’aver appreso che gruppi estremisti ebraici, in qualche modo cullati dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, avevano iniziato a rivendicare l’occupazione della Spianata (formalmente in mano israeliana dal giugno 1967, ma di norma lasciata alla responsabilità del Gran Mufti di Gerusalemme): oggi “delle moschee” ma, duemila anni fa, ospitante il tempio di Gerusalemme e, perciò – questa l’idea – da dividere in due (come le tombe dei patriarchi ad Hebron): una parte ad ebrei, una parte a musulmani.

Quella in atto da diversi mesi è una rivolta avviata da singoli palestinesi, agendo autonomamente, senza spinte programmate da al-Fatah, il partito del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) che governa la Cisgiordania, o da Hamas, il Movimento di resistenza islamico che controlla la Striscia di Gaza. Questa rivolta è caratterizzata da giovani che, spesso armati solo di coltello, cercano di pugnalare per le strade passanti ebrei; oppure li accoltellano in un autobus; o, anche, con la macchina falciano un gruppo di ebrei che stanno aspettando l’autobus. Oltre che a Gerusalemme-est, e in Cisgiordania contro coloni ebrei, i tentativi di assalto si sono verificati anche all’interno di Israele, in particolare a Tel Aviv.

Dopo un primo momento di sorpresa, l’esercito israeliano ha reagito duramente per arginare questa epidemia singolare, e difficilmente prevedibile nei singoli casi; talora sparando a vista contro qualsiasi sospettato (e basta poco per esserlo!), e aggravando le già aspre normative che limitano la libertà di movimento dei palestinesi a Gerusalemme-est e nella Cisgiordania occupata (all’interno di Gaza, invece, sono liberi di muoversi, ma non di uscire dalla Striscia – disastrata dei bombardamenti israeliani dell’estate 2014 – che perciò in realtà è una grande prigione a cielo aperto).

Inconciliabile è il giudizio sulle responsabilità della violenza in atto, e sui suoi mandanti politici. Netanyahu ha annunciato alla Knesset (parlamento) che «Israele utilizzerà ogni mezzo disponibile» per contrastare la violenza. Il premier ha assicurato che il governo sta lavorando a una serie di «passi aggressivi» in risposta agli «attacchi terroristici» dei palestinesi che, «sono sicuro, faranno capire alla controparte che il terrore non paga». E poi: «Voglio dire al presidente Abu Mazen: basta mentire e istigare. Un vero leader deve agire con responsabilità». Secondo il governo israeliano sarebbe in corso, insomma, la terza intifada, programmata dall’Autorità palestinese.

Analisi e accuse respinte al mittente dal ministro degli Esteri palestinese Riad al Malki, parlando a Ginevra durante la cerimonia per issare la bandiera palestinese sulla sede delle Nazioni Unite: «È il premier Netanyahu che sta cercando di istigare una nuova intifada, spingendo i palestinesi allo scontro. Ma noi vogliamo evitarlo e non dare a Israele quella soddisfazione… L’unica soluzione per placare l’escalation di violenza è chiedere l’intervento del Consiglio di sicurezza dell’Onu». E Saeb Erekat – uno dei principali negoziatori palestinesi nelle trattative di pace con Israele – parlando a Ramallah, la provvisoria “capitale” de facto del costituendo Stato di Palestina, ha ribadito: «Anche i palestinesi hanno il diritto di difendersi… Il governo israeliano è completamente responsabile per l’escalation di violenza a Gerusalemme, in Cisgiordania e a Gaza. Risultato – le violenze – delle politiche di occupazione, delle colonie e dell’apartheid. Molti dei ragazzi oggi nelle strade sono nati dopo Oslo [sede degli accordi fra Israele e Olp, preparati in Norvegia e firmati a Washington il 13 settembre 1993]. Avevamo promesso loro indipendenza e libertà tramite i negoziati. Abbiamo fallito. Ogni tentativo di raggiungere un accordo per la soluzione a “due Stati” è sempre stato ostacolato da Israele: la violenza chiama violenza». E, dal Cairo, il segretario generale della Lega araba, Nabil el Arabi, ha assicurato il suo «totale sostegno alla rivolta del popolo palestinese».

La cronaca e la storia

Difendere la causa della Palestina accoltellando passanti o falciando con la macchina, deliberatamente, ebrei che aspettano l’autobus, è un’aberrazione, e una scelta politica suicida e indifendibile. Senza “se” e senza “ma”. Punto. Ciò detto e ribadito, occorre chiedersi perché si è arrivati alla situazione attuale. E la risposta è semplice: questa gioventù ha visto solo l’occupazione militare e coloniale israeliana della Cisgiordania e di Gerusalemme-est; ha visto trattative israelo-palestinesi finire nel nulla; ha visto la debolezza estrema dell’Autorità palestinese; ha visto corruzione diffusa nella dirigenza palestinese; ha constatato l’ignavia di molti paesi arabi “fratelli” (così l’Arabia Saudita, pur aiutando ogni tanto economicamente Abbas, è alleata di Israele in funzione anti-iraniana). Perciò, perduta ogni speranza, compie scelte tragiche che renderanno ancora più dolorosa la vita nei Territori occupati.

Come uscirne? È ancora realistica l’ipotesi dei “due Stati”, mentre Israele continua l’espansione degli insediamenti nei Territori, rendendo così impossibile la formazione di uno Stato di Palestina che non sia un groviglio di Bantustan immersi in Israele? E mentre Netanyahu protesta duramente se l’Unione europea decide che i prodotti ortofrutticoli provenienti dai Territori occupati portino un’etichetta che ne precisa la provenienza? E, d’altronde, essendo al-Fatah e Hamas in rotta di collisione sul “che” e “come” trattare con Israele (il quale ha diritto di esistere e di vedere riconosciuto questo diritto), come potrebbero partire, dal fronte palestinese, trattative stringenti con Netanyahu?

D’altronde, nel prossimo novembre il popolo statunitense eleggerà il successore di Barack Obama. Quali che siano il candidato democratico (sembra certa Hillary Clinton) e repubblicano (chi? Al momento i sondaggi danno in vantaggio Donald Trump), nessuno dei due, nei prossimi dieci mesi, potrebbe opporsi – pena la perdita dei voti preziosi dei gruppi di pressione come l’Aipac (American Israel public affairs committee)a qualche decisione particolarmente aspra del governo israeliano contro i palestinesi. Questi ultimi saranno così in balia degli eventi, e “sepolti” dal sovrastante rumore delle armi in Siria, in Iraq, nello Yemen e – Allah non voglia – anche altrove in Medio Oriente. Mala tempora currunt.

(pubblicato su Confronti di gennaio 2016)

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