di Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’Archivio Disarmo
Quando si tratta delle tensioni in atto nel mondo, si rimane sorpresi della scarsa o nulla memoria storica circa le vicende che le hanno precedute e causate. Quasi in modo inaspettato i governi e l’opinione pubblica assistono da un lato all’espansione delle crisi mediorientali, dall’altro a nuove tensioni tra Mosca e Washington. Eppure le premesse e i segnali di tutto questo erano evidenti da tempo. La crisi del Medio Oriente affonda le sue radici negli accordi anglo-francesi del 1916 per spartirsi in futuro i territori sottratti all’Impero ottomano. Lo spezzettamento dell’area, la conflittualità israelo-palestinese, le tensioni insolute e la “geopolitica del caos” hanno creato le condizioni per un’instabilità sempre più grave ed allargata, evidenziando come la superpotenza superstite, gli Stati Uniti, in realtà non possa ergersi ad arbitra di un mondo multipolare e in profonda trasformazione. L’esportazione della democrazia con le baionette fallisce. Gli interventi militari occidentali prima in Afghanistan, poi in Iraq, infine in Libia, invece di essere risolutivi, precipitano tali paesi e quelli vicini in situazioni drammatiche, mentre l’Onu viene progressivamente emarginata.
In questo scenario globale i rapporti Washington-Mosca vanno peggiorando per molteplici cause.
Innanzitutto l’ipotesi illusoria che la Russia non potesse essere più un attore fondamentale sulla scena internazionale e quindi emarginabile, trascurabile, tramonta nel giro di pochi anni. L’utilizzo commerciale delle risorse energetiche proprie e dei paesi dell’Asia centrale permettono al Cremlino di riprendersi in tempi brevi, mentre opposizione interna e voci critiche vengono tacitate, a volte anche violentemente: Amnesty international parla di “autoritarismo popolare e democratico”.
Nel frattempo, Mosca avverte come un accerchiamento l’allargamento costante dell’Ue e della Nato verso Est. La crisi con la Georgia prima nel 2008 e quella con l’Ucraina nel 2014 mostrano, però, come il grande paese dell’Est Europa intenda riaffermare, anche con la forza delle armi, la sua capacità di protagonista.
Alleato storico della Siria, ne sostiene il regime dapprima riuscendo a farlo aderire nel 2013 alla Convenzione sulle armi chimiche Cwc ed evitando il paventato, ennesimo intervento militare occidentale, per poi intervenire a sua volta nel conflitto civile in atto. Mosca di fatto ribadisce di essere un protagonista pronto ad agire (ipotizzando perfino l’uso di armi nucleari sia nel 2014 per l’Ucraina sia nel 2015 per Daesh), mentre l’Ue mostra allo stesso tempo di non saper gestire la crisi ucraina e di fatto assiste alla separazione in due del paese, con la Crimea addirittura annessa alla Russia insieme alla base strategica di Sebastopoli.
Da parte statunitense, l’“European phased adaptive approach – Epaa” del 2009, cioè la dislocazione di basi antimissile ai confini russi in Polonia, Romania e Repubblica Ceca, presentata come misura contro un’improbabile minaccia missilistica iraniana, e il “Life Extension Program – Lep”, cioè il potenziamento delle 180 bombe nucleari tattiche B61 (8 miliardi di dollari) già da tempo dislocate presso cinque fidati alleati europei (Italia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia, tutti aderenti al Trattato di Non Proliferazione nucleare) e tra breve da installare sui nuovi F35 con capacità stealth (cioè invisibili ai radar), non fanno altro che aggravare il progressivo senso di accerchiamento e d’isolamento di Mosca. A questo si aggiunga l’annuncio dell’ingresso del Montenegro nell’Alleanza atlantica.
La determinazione con cui si muove il Cremlino mostra di valere decisamente di più del colosso Ue “dai piedi d’argilla”, ancora incapace di una vera politica estera e di sicurezza comune. La sottovalutazione della potenza russa da parte europea e statunitense potrebbe condurre ad una nuova, pericolosa guerra fredda, evitabile se tutte le parti in gioco sapranno riprendere un dialogo volto al non isolamento del Cremlino, ma anzi ad un suo necessario coinvolgimento nelle politiche di sicurezza mondiali: la questione Daesh potrebbe essere l’occasione giusta. Immaginare di poter gestire il mondo come nel 1916 riproporrebbe un analogo e pericoloso fallimento.
(pubblicato su Confronti di gennaio 2016)