di Ugo Melchionda (presidente del Centro studi e ricerche Idos)
Che ne è dell’accordo di Schengen, uno dei cardini della Costituzione dell’Unione europea, che prevede(va) la libera circolazione dei cittadini europei dal suo punto più a nord (Nuorgam, Finlandia) al suo punto più a sud (Akrotiri, Cipro) e dal suo punto più a ovest (Fajã Grande, Azzorre, Portogallo) al suo punto più a est (Ayia Napa, Cipro)?
Negli ultimi mesi abbiamo assistito e stiamo ancora assistendo ad un effetto domino che sembra inarrestabile: la Svezia ha ripristinato i controlli alla frontiera con la Danimarca, che a sua volta ha reintrodotto i controlli ai confini con la Germania; questa ha introdotto controlli ai confini con l’Austria, che ha chiuso le frontiere e sospeso i treni di migranti provenienti da Ungheria; quest’ultima ha costruito un muro al confine con la Slovenia; la quale, riportano i media, sta valutando l’idea di munirsi di barriere protettive sul confine con la Croazia; paese con il quale l’Italia è allertata (da zelanti giornalisti) a chiudere le frontiere, mentre la Francia, che aveva già temporaneamente ripristinato più volte i controlli alla frontiera con l’Italia sembra pronta a rifarlo al minimo cenno di crisi. Per non parlare della Gran Bretagna.
Insomma: l’accordo di Schengen che rappresentava uno dei simboli del sogno europeo, insieme al Parlamento europeo e alla moneta unica, e molte volte era stato uno dei motori principali per attrarre verso l’Unione europea i governi dei paesi del continente europeo, che aveva fatto sentire, più di altri simboli, i giovani dei 28 paesi membri cittadini europei, prima e più che cittadini nazionali, sembra oggi carta straccia, di fronte ai nuovi fatti.
Da un lato, in misura minore, di fronte al timore suscitato dal terrorismo e alle misure di sicurezza che i singoli stati membri hanno preso per contrastare tale minaccia. Dall’altro, in misura maggiore, a fronte dell’impossibilità di gestire la crisi umanitaria, che ha portato un milione di profughi in Europa nel corso del 2015, con gli strumenti offerti dal vigente accordo di Dublino, che stabilisce che ogni profugo deve fare la richiesta di asilo nel primo paese europeo di cui ha varcato la frontiera.
Il dilemma che ci troviamo di fronte è quello di scegliere tra l’accordo di Schengen e il regolamento di Dublino, perché non possono essere entrambi in vigore nello stesso tempo, e la mobilità interna dei cittadini europei non è compatibile con la costrizione dei richiedenti asilo a chiedere asilo nel primo paese raggiunto. E il problema non è tecnico o giuridico, la questione non è come modificare l’accordo di Schengen o il regolamento di Dublino in modo da renderli compatibili l’un con l’altro, ma è etico e politico: non possiamo permetterci di avere un’Unione europea che promuove mobilità e libera circolazione per i propri cittadini e immobilità e residenza forzata per i profughi e richiedenti asilo che essa ha accolto, dando loro protezione internazionale.
La domanda «Che succederebbe se cediamo su Schengen, se rinunciamo alla libera circolazione in Europa?» rassomiglia un po’ alla domanda «Che succederebbe se gli immigrati lasciassero l’Italia?». Come sarebbe inimmaginabile un’Italia senza immigrati, sarebbe altrettanto inimmaginabile un’Europa senza libera circolazione per i giovani e per gli imprenditori dei 28 paesi che si muovono liberamente tra Parigi, Roma, Londra e tutti gli altri splendidi posti dell’Europa.
Se rinunciamo a Schengen, in nome della sicurezza, della realpolitik, l’Europa che 500 milioni di cittadini hanno sognato sarà perduta.
Ma Schengen dobbiamo salvarlo per tutti, anche per coloro che accogliamo come profughi e richiedenti asilo, che riconosciamo come rifugiati. Se salviamo la libera circolazione per i cittadini europei e la neghiamo ai profughi che accogliamo, finiremmo per creare un sistema di apartheid in cui il regolamento di Dublino rappresenta la linea gialla che ai profughi non è permesso varcare. E di tale soluzione non abbiamo davvero bisogno.
(pubblicato su Confronti di febbraio 2016)