intervista a Pupa Garribba, a cura di Claudio Paravati
In occasione del Giorno della Memoria, abbiamo intervistato Pupa Garribba, giornalista e storica collaboratrice di Confronti, testimone e intervistatrice della Shoah Foundation di Los Angeles.
Cosa vuole dire per te ricordare?
Per me ricordare ha un significato se c’è qualcuno disposto ad ascoltare. La mia esperienza è molto traumatica: finita la guerra, tornata dall’esilio svizzero – ero profuga – ho trovato, al mio rientro, un muro impenetrabile davanti a me. Nessuno voleva sapere. Questa impressione, di un’Italia che non voleva ascoltare e che non voleva fare i conti col proprio passato, è stata una ferita che non si è chiusa per molti anni.
Quando è cambiato qualcosa?
Quando nel 1990, in pieno periodo dei naziskin, una scuola – ancora non c’era il Giorno della Memoria – mi ha contatto per andare a raccontare la mia testimonianza presso il proprio istituto. Ricordo che non sapevo bene da che parte cominciare e mi sono aggrappata al ricordo della mia pagella da bambina – mai accettata a scuola, studiavo da privatista – con la scritta “razza ebraica”, in bella calligrafia, a penna: una pagella molto speciale. I naziskin si erano barricati per impedirmi l’ingresso – dicendo che non volevano respirare la stessa aria che respirava un’ebrea. Invece professori e studenti erano interessati, volevano sapere ed erano pronti ad ascoltare. In quel momento per me l’incantesimo negativo si è rotto, e la memoria è diventata un fatto attivo.
Dopo 26 anni testimonianze, che senso ha maturato oggi la Giornata della memoria?
Qualcosa è cambiato. Adesso la gente in qualche modo è tenuta ad ascoltare. La maggior parte delle persone lo fa, però, perché in calendario ormai c’è questa abitudine. I primi anni, certo, erano a volte drammatici: bimbi che leggevano a memoria fogliettini preparati dagli adulti, senza sapere minimamente di cosa si stesse parlando; oppure censure dei video di testimonianza per non scandalizzare il vescovo di turno. Oggi l’interesse è aumentato, e sono venute fuori cose positive. Però non si può andare avanti solo così.
Cosa manca oggi allora?
Le testimonianze che portiamo in giro vogliono parlare del passato per aprire gli occhi sul presente. Non per commuoversi e far commuovere. Tutto quello che io racconto è appoggiato da documenti; questo presento, e non mi interessa commuovere raccontando di me bimba di tre anni che non può andare a scuola, di nove anni che a piedi scavalla in inverno, nella neve, una montagna per scappare dall’Italia: voglio che passi il messaggio che queste cose sono successe, e stanno succedendo anche adesso. Se ci si commuove per me, ci si deve commuovere anche per il bambino che si vede in televisione, che tenta il suo viaggio su un barcone per il Mediterraneo. E su questo non sono tanto convinto che ci siamo riusciti.
Come facciamo a fare una “buona” memoria in quest’Europa?
In questi giorni sono in giro a parlare, anche nelle scuole, e a tutti faccio una proposta, che viene dalla Shoah Foundation di Los Angeles. Proviamo a fare qualcosa in prima persona nel nostro quotidiano per qualcuno che ci sta a fianco? Ciascuno di noi può cambiare la vita di una persona. Per esempio mi fa male quando vedo nelle scuole di periferia ragazzi e ragazze immigrati completamente isolati: sono perfetti estranei in una società che li respinge. Se dunque chi mi ascolta accetta me e mi vuole ascoltare, deve prima ascoltare le persone con cui condivide la classe tutti i giorni, altrimenti non ha senso.