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La scuola oggi: punti di vista a confronto

di redazione

Vi proponiamo il servizio sulla legge 107 del 2015 (quella che il governo Renzi ha voluto battezzare “la Buona scuola”) uscito sul numero di febbraio di Confronti, con interventi di Giuliano Ligabue, Antonella Fucecchi (direttrice di CEM Mondialità e insegnante) e Cecilia Calamani (direttore responsabile di cronachelaiche.it). A questi articoli, segue un commento di Enzo Marzo, direttore di Critica liberale.

La funzione pubblica della scuola italiana

di Giuliano Ligabue

Nessuna intenzione, in queste poche righe, di dare fiato alle trombe del conflitto tra scuola pubblica e scuola privata – comunemente e semplicisticamente ridotto, quasi sempre, a conflitto tra scuola statale gratuita e scuola privata finanziata dallo Stato – per il semplice fatto che qui si vorrebbe considerare un’altra realtà: quella della scuola statale a funzione e servizio pubblico e quella della scuola non statale a sola funzione pubblica, che è la scuola paritaria.

Verso la fine del testo di legge n.107 del 13 luglio 2015 – quello Renzi-Giannini della cosiddetta “Buona scuola”, così tanto contestata ma, comunque, in fase di avanzata attuazione – è inserito un comma, il n. 152, dal tono quasi minaccioso: «Piano straordinario di verifica dei requisiti per il riconoscimento della parità scolastica». Si potrebbe pensare a un intervento marginale ma non lo è, sia per la realtà che chiama in causa sia per il suo significato politico, in un contesto legislativo di dichiarato rinnovamento della funzione della scuola italiana.

Ora, quel comma è comprensibile solo se si tiene presente la legge n. 62 del 10 marzo 2000, a firma Luigi Berlinguer, pensata unicamente nel quadro di una “espansione di un’offerta formativa”, comunque caratterizzata da qualità ed efficacia. È la legge con cui venivano istituite le scuole paritarie. Ampliare la funzione pubblica della scuola italiana era l’intento di Berlinguer. Non certo quello di creare concorrenza alla scuola dello Stato, per la quale la “funzione pubblica” è costitutiva del proprio essere e non necessita di ampliamento alcuno, ma di allargarla ad altri soggetti che – pur restando nell’ambito dell’iniziativa e gestione privata – garantissero ugualmente una “funzione pubblica”. E come? Accettando e facendo proprie tutte le condizioni costitutive d’una scuola di Stato “naturalmente pubblica”, e cioè: un’offerta formativa (Pof) ispirata al dettato costituzionale; docenti nella pienezza dei titoli professionali; l’accesso per tutti, compresi i portatori di handicap; una partecipazione democratica (organi collegiali di indirizzo e di governo); contratti di lavoro nazionali, per chi vi opera; una contabilità trasparente e accessibile; la pubblicità dei bilanci.

Tutto questo la legge 62/2000 lo riassume e fissa in otto requisiti (articolo 1, comma 4), rispettati i quali tali scuole vengono «abilitate a rilasciare titoli di studio aventi valore legale» (ib., comma 2), entrando così, a pieno titolo e a tutti gli effetti, nel Sistema nazionale di istruzione (Sni). Come le scuole di Stato, visto che garantiscono la stessa funzione.

A tutt’oggi, dopo quindici anni di entrata in vigore della legge, gli Istituti paritari ammontano a circa 13.500, rispetto agli 8.500 delle Scuole statali (tenendo presente che tutte le scuole d’infanzia comunali rientrano tra le paritarie), e contano quasi un milione di studenti, di fronte ai quasi 8 milioni delle statali.

Ma perché – quindici anni dopo – il governo italiano, in una legge che vorrebbe “rifare” la scuola e renderla finalmente “buona”, manifesta il bisogno – mai sentito da alcun governo prima – di inserire quel comma 152 sulle scuole paritarie? Evidentemente perché si è reso conto, o in qualche modo gli è stato fatto “vedere”, che qualcosa nel frattempo è successo, là dentro.

In effetti non è difficile scoprire – a chi lo voglia – come, nel tempo, non pochi di questi Istituti formalmente riconosciuti “pari” alla scuola statale non ne rispettano la “funzione pubblica”, come dovuto: quando vi operano docenti non abilitati all’insegnamento, se non addirittura senza laurea; quando il rapporto di lavoro con gli operatori è sottoposto ad arbitrio (niente busta-paga, condizionamenti psicologici); quando si rifugge dall’accoglienza dei portatori di disagio; quando si è subordinati a forme di diktat delle famiglie, per via del denaro delle loro rette mensili; quando si rifugge dal rendere accessibili i bilanci. Senza parlare di quelli ridotti a “diplomifici”, cioè a facilitatori di diplomi a pagamento.

Va detto che – se non altro in forza del rispetto di una loro consolidata tradizione educativa – sono anomalie che si verificano meno nelle scuole a “ispirazione di carattere religioso” che, sul territorio nazionale, sono poi cattoliche per il 63% del totale. Ma, anche qui, non mancano le situazioni in cui il “blasone” cattolico, o comunque religioso, è di fatto funzionale all’assorbimento di varie forme d’illegalità, oltre che, a volte, a copertura di mediocrità qualitative (e qui perché non chiamare in causa il controllo, non solo dello Stato ma anche quello – ben pertinente – del Vicariato diocesano?).

Sta di fatto, comunque, che è possibile, per una scuola paritaria, rispondere pienamente ai requisiti imposti dalla legge, di “pubblicità-efficacia-qualità”. Posso proporne un esempio, in forza di diretta conoscenza ed esperienza: l’Istituto “Leonino”, unica scuola paritaria cattolica nella città di Terni. Più che semplice scuola, è un polo scolastico: dall’asilo nido fino al Liceo scientifico con indirizzo sportivo; 311 alunni, dagli 8 mesi ai 18 anni; docenti (55) per selezione di titoli e di merito; un sostegno diffuso al disagio psichico e dell’apprendimento (Gruppi di lavoro Handicap e Disturbi specifici di apprendimento, in ogni classe); rette mensili al disotto della media nazionale; la collegialità funzionante con tutti gli organi democratici; rispetto e trasparenza dei vincoli contrattuali di lavoro. Una gestione di natura privatistica – come per ogni scuola paritaria, che resta non statale – ma che assolve a una funzione pubblica a tutti gli effetti. E, forse, anche di più. Mi riferisco al fatto che l’Istituto sta dando forma a un’idea che rischia di diventare un punto di riferimento per le scuole pubbliche dell’intera città: la scuola sarà in attività tutti i pomeriggi fino alle ore 19, non come l’abituale prolungamento della scuola (il “dopo-scuola”) ma come una vera e propria “Sesta area didattica” (“Sesta”, dopo il Nido, l’Infanzia, la Primaria, la Media e il Liceo) in cui operatori qualificati – coordinati con i docenti titolari del mattino – completano la formazione linguistica, artistica, musicale, motoria degli studenti. Una “realizzazione di scuola aperta” – come chiede, già in apertura, la legge n. 107/2015 (art.1, comma 1) – e, soprattutto, una nuova modalità di essere scuola. Lo stesso Luigi Berlinguer, in un dibattito pubblico di poco più di un anno fa (18 ottobre 2014, a Ostia Lido), questo auspicava: che nelle scuole paritarie fosse possibile e augurabile – data la loro maggiore flessibilità gestionale – sperimentare nuovi modelli di servizio pubblico.

È superfluo aggiungere che resta aperto il tema del finanziamento pubblico dello Stato a queste scuole non statali che si amministrano in proprio con le rette pagate dalle famiglie: un problema legittimo, posto da molto tempo e da più parti, e che andrà in qualche modo risolto, nel rispetto della Costituzione. Ci si interroga anche sulla discrezionalità nella scelta dei docenti che – in particolare nelle scuole di indirizzo valoriale, come quelle a orientamento religioso – comporta l’adesione a una precisa cultura, mettendo a rischio la libertà di insegnamento. Per queste ragioni, c’è chi paventa – senza peraltro farsi condizionare da ideologismi sommari – che tali scuole possano diventare il principio di un processo di balcanizzazione, isolando le culture piuttosto che mescolarle.

Sono interrogativi veri e non da sottovalutare, ma rimandano ai problemi di una società italiana che attraversa un periodo di profondi cambiamenti ed è alla ricerca di forme di convivenza e di norme più rispondenti ai nuovi assetti.

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È davvero una “buona scuola”?

di Antonella Fucecchi

La legge n. 107 del 2015, approvata a colpi di fiducia, è nata sotto il segno della imposizione ignorando completamente la pertinace protesta dei docenti, che ha avuto il suo apice nella manifestazione nazionale del 5 maggio 2015, la più imponente degli ultimi decenni. Tale mobilitazione è continuata fino al giorno della irreversibile trasformazione del ddl in legge il 13 luglio 2015. Si tratta di una riforma non concepita dal basso, non condivisa, non preceduta, né accompagnata dal coinvolgimento delle comunità scolastiche.

Le ragioni di tale vigorosa opposizione devono esser ricercate nello spirito della legge che merita di essere illustrato, visto che né in quei giorni né dopo si è aperto un vero dibattito pubblico. Un assordante “silenzio assenso” ha visto passare una legge destinata a vibrare un colpo forse mortale all’istruzione statale. Una scuola buona ad accentuare le disuguaglianze.

Il principale punto critico della legge riguarda l’impianto concettuale che la anima, ispirato alla logica della meritocrazia selettiva, della competizione tra scuole e della loro massima differenziazione, alla tendenza a trasformare gli istituti scolastici in micro-imprese impegnate in campagne di public relations con enti finanziatori, per provvedere al reperimento di fondi e di sponsor ed entrare nel mondo del fundraising.

Del resto la riforma è stata chiaramente concepita da Confindustria e in particolare dall’ente TreeLLLe (Long Life Learning), e quindi ne rispetta le finalità e i criteri: ma persino questo dato così rilevante non ha suscitato alcuna reazione da parte degli intellettuali, dei pedagogisti, delle teste pensanti.

L’attenzione all’eccellenza e al merito non è stata adattata alla natura formativa ed educativa della scuola e non è misurata sulla base dei parametri dell’inclusività, dell’offerta di pari opportunità, della valorizzazione di buone pratiche messe in opera per la formazione del buon cittadino, ad esempio, in contesti sociali difficili.

Si premia il risultato, il “successo formativo”, prescindendo dalle condizioni di partenza, dai contesti ambientali, geografici, sociali ignorando completamente i processi di formazione e il loro valore educativo, dimostrabile anche in caso di performances inferiori agli standard desiderati: sotto questo punto di vista le scuole di Scampia hanno lezioni da impartire ai più blasonati istituti della capitale.

La questione della bontà della scuola, allora, verte sull’idea di scuola che si intende costruire e sulle finalità che le si attribuiscono.

I vari commi dell’articolo 1 ribadiscono che la scuola debba essere aperta, inclusiva, interculturale, palestra di cittadinanza, ma nei fatti e nelle scelte di politica finanziaria agevolano una scuola selettiva, non solidale né cooperativa, rampante e disposta ad aprirsi ai privati per avere la copertura economica delle spese e dei costi di gestione (la famosa carta igienica) che lo Stato non è più in grado di assicurare e garantire. Infatti tutti gli ampliamenti dell’offerta formativa e tutti i potenziamenti obbligatori devono essere autonomi nel finanziamento; più volte si ribadisce che non debbono comportare ulteriori oneri per lo Stato.

Pertanto la sussistenza della scuole è affidata alla capacità imprenditoriale del dirigente manager di andare letteralmente a caccia dei finanziatori con abili operazioni di marketing e varie strategie.

In buona sostanza, lo Stato “cede”, demanda la gestione delle scuole operando una spending review che consiste nel ridurre i finanziamenti o usarli per sovvenzionare istituti privati che già raggiungono elevati standard di successo formativo.

Non sorprende, dunque, che il governo abbia poi varato una serie di altre misure volte a rafforzare il processo di privatizzazione dell’istruzione e della formazione di tipo statale: gli sgravi fiscali e le detrazioni previste per le famiglie che iscrivono i propri figli ad istituti privati paritari laici o confessionali rientrano pienamente in tale logica che incoraggia lo smantellamento del sistema statale considerato un carrozzone poco produttivo.

Lo sgravio fiscale non è la mossa più sconsiderata promossa dalla riforma. Ben più grave è, invece, il creare disparità tra istituti scolastici statali, aggravare i dislivelli, avallare una meritocrazia aggressiva che penalizza situazioni già precarie destinate a peggiorare perché meno attraenti per gli sponsor: presumibilmente pochi donatori o finanziatori investirebbero, infatti, sul quartiere Zen di Palermo, sulle scuole di Corviale a Roma o di Quarto Oggiaro a Milano. Il potere manageriale affidato ai dirigenti nella scelta del piano triennale, nella selezione dei docenti, nella valutazione del loro operato ha, appunto, proprio lo scopo di creare scuole di serie A, B e C, perché l’obiettivo finale è scremare e far affiorare le migliori in base ai risultati.

Le scuole di periferia, gli avamposti della lotta all’illegalità, gli istituti in prima linea nel contrasto alla mafia finiscono in un cono d’ombra perché con estrema difficoltà potranno competere con scuole situate in altre aree e frequentate da alunni di diversa provenienza socio-economica.

Si dà il caso, però, che tale orientamento sia contrario allo spirito della Costituzione, che attribuisce alla scuola il compito di educare un buon cittadino senza operare discriminazioni in base all’appartenenza etnica, o all’estrazione sociale. Obiettivo della buona scuola è, invece, creare gerarchie di scuole che, in base al loro gradino meritocratico, saranno destinate a formare e addestrare manodopera selezionata o forza-lavoro o figure quadro con ambizioni dirigenziali.

Tale logica sclerotizza le differenze e, anzi, le usa per creare livelli di formazione differenziati che rischiano di annullare il maggior merito della scuola pubblica dell’Italia unita: garantire la parità, offrire a tutti la possibilità di essere pari. Perché «il dispari cominciava fuori» (Erri De Luca).

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Scuole paritarie: quale servizio pubblico?

di Cecilia M. Calamani

Sono passati 16 anni da quando l’allora ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer, con la legge 62 del 10 marzo 2000, definì i criteri per la parità tra scuola privata e scuola pubblica e battezzò l’insieme delle due “Sistema nazionale di istruzione”. In sostanza, una scuola privata per essere “paritaria” – e quindi poter rilasciare titoli di studio legali – deve rispettare norme e ordinamenti vigenti su offerta formativa e organi collegiali, accettare tutte le richieste di iscrizione senza discriminazioni e assumere docenti in possesso di abilitazione all’insegnamento.

Qualora poi non ci siano fini di lucro, l’istituto accede ai finanziamenti pubblici stanziati annualmente, una cifra che si aggira intorno ai 500 milioni di euro l’anno. La dicitura «senza oneri per lo Stato» con la quale la nostra Costituzione all’articolo 33 autorizza l’istituzione di scuole private non ha, evidentemente, preoccupato il legislatore. Nulla invece viene stabilito sull’orientamento culturale e l’indirizzo didattico, anzi la stessa legge 62 garantisce agli istituti paritari «piena libertà». Motivo per cui quelli confessionali, che naturalmente hanno (e danno agli studenti) un preciso orientamento ideologico, fanno parte a pieno titolo del sistema.

Dall’entrata in vigore della legge le polemiche non sono mancate e riaffiorano ogni anno quando il governo si appresta ad approvare la legge di Stabilità, il mezzo deputato allo stanziamento dei fondi agli istituti privati. In particolare, le varie associazioni che parlano a nome delle scuole paritarie rivendicano la totale equiparazione economica con gli istituti statali nel nome del principio di “libertà di scelta educativa” dei genitori. A sentir loro, le scuole paritarie non solo svolgono un servizio pubblico, ma consentono allo Stato di risparmiare una cifra che si aggira intorno ai sei miliardi di euro ogni anno (dossier 2012 dell’Associazione genitori scuole cattoliche).

La realtà, a ben vedere, è molto diversa dagli slogan.

Va da sé che un servizio è pubblico se è aperto a tutti. L’accesso all’istruzione paritaria è condizionato da due fattori, di cui il primo e più evidente è di ordine economico e consiste nel pagamento di una retta che è tanto più alta quanto più l’istituto è prestigioso. Il secondo fattore è di tipo ideologico. Il 63 per cento delle 13.625 scuole paritarie sul territorio nazionale (dati dell’anno scolastico 2013/2014) è costituito da istituti cattolici e la percentuale sale se si escludono dal conteggio le scuole secondarie di secondo grado (solo 1710), in prevalenza laiche. Appare retorico chiedersi a quale tipologia di utenza siano rivolti tali istituti e come vengano selezionati i docenti. L’insegnamento in mano a una confessione religiosa, qualsiasi essa sia, non è libero e non è per tutti, non ci sarebbe neanche bisogno di rimarcarlo.

Ma c’è un altro aspetto che merita attenzione. La legge 62, all’articolo 6, stabilisce che il Ministero dell’Istruzione «accerta l’originario possesso e la permanenza dei requisiti per il riconoscimento della parità». Il che significa vigilare costantemente sul rispetto delle regole organizzative e didattiche ma anche sui titoli e sui contratti di assunzione dei docenti. Regola che vale sulla carta ma non nella realtà. E forse non è un caso che le indagini triennali Ocse Pisa (Programme for International Student Assessment) dipingono la scuola paritaria come una zavorra, dal punto di vista della preparazione degli studenti, del sistema di istruzione nazionale.

Perciò, anche escludendo un costo di accesso non sostenibile da tutti i cittadini, come può dirsi “pubblico” un servizio gestito da privati negli aspetti didattici, culturali e amministrativi senza controlli da parte dello Stato?

Oltre ai circa 500 milioni di euro stanziati ogni anno dalla legge di Stabilità, gli istituti si avvalgono di finanziamenti regionali, provinciali e comunali che l’inchiesta “I costi della Chiesa” dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti stima in almeno 800 milioni di euro per le sole scuole cattoliche. C’è poi, sempre per queste ultime, l’esenzione dal pagamento delle tasse sugli immobili. L’ambigua questione Ici-Imu, venuta alla ribalta lo scorso anno quando una sentenza di Cassazione – anche in virtù del richiamo Ue sugli indebiti aiuti di Stato alla Chiesa cattolica – ha imposto il pagamento dell’Ici a due scuole cattoliche di Livorno, è stata considerata superata dallo stesso ministro dell’Economia Padoan, il quale ha ribadito che «la controversia non riguarda l’Imu», dal quale le scuole paritarie senza fini di lucro sono esenti. Questione chiusa, dunque: gli istituti cattolici continueranno a non pagare tasse sugli immobili, il che aumenta di qualche altro centinaio di milioni di euro la posta.

Arriviamo così a un esborso pubblico di almeno un miliardo e mezzo di euro l’anno, che riduce sensibilmente i presunti sei miliardi di euro che lo Stato risparmierebbe ogni anno grazie all’istruzione privata. Ma per arrivare a dire che il calcolo dei sostenitori della scuola paritaria è senza fondamento occorre qualche altra considerazione. La prima è che i costi non sostenuti direttamente dallo Stato per gli studenti delle paritarie sono a carico delle famiglie, e sempre di denaro “pubblico” si tratta. La seconda è che un oggettivo aggravio per la collettività si verificherebbe solo se tutti gli studenti della scuola paritaria (circa un milione contro i nove milioni della pubblica) si trasferissero in blocco nella scuola statale. Anche ammettendo questa assurda possibilità, è difficile pensare che tale aggravio supererebbe il miliardo e mezzo di euro stanziati tutti gli anni. Quanti docenti possono essere assunti con questa cifra? E quanti edifici possono essere costruiti o riconvertiti in scuole? Per tacere sull’iniezione vitale che la scuola statale, martoriata da decenni di tagli, riceverebbe se solo le venissero destinati questi fondi.

Un’ultima osservazione merita il falso problema della libertà di scelta educativa. Se lo Stato non finanzia (maggiormente) le scuole paritarie lede la libertà di quei genitori che non possono permettersi di mandare il figlio nella scuola che desiderano: questo il mantra delle associazioni cattoliche che ogni anno ci ronza nelle orecchie. A dargli vigore negli ultimi tempi, le pretestuose rimostranze contro fantomatiche “teorie gender” che sarebbero oggetto di insegnamento nella scuola pubblica (statale).

La questione è semplice. Lo Stato fornisce un’istruzione gratuita, libera e plurale – e quindi anche laica – a tutti gli studenti e i cittadini italiani la pagano con le proprie tasse. Nessuno vieta a un genitore di scegliere una scuola meglio orientata al suo sentire, ma non a spese della collettività. Che non dovrebbe pagare le pur legittime preferenze di pochi, ma solo i servizi destinati a tutti.

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Tra ipocrisie e giochi delle tre carte

di Enzo Marzo

C’è poco altro da aggiungere. L’articolo di Cecilia M. Calamani è esauriente. Dati, circostanze, obiezioni sono tutte doverose e ineccepibili. Se l’Italia fosse un paese serio la stortura delle scuole confessionali sarebbe risolto da tempo, anzi non sarebbe neppure sorta. Ma la storia italiana è stata altra e ha portato il paese alla rovina attuale.

Ma vogliamo dire i nomi e i cognomi dei responsabili di questo disastro? Purtroppo dall’inizio del secondo dopoguerra a diversi livelli abbiamo subito l’egemonia di due forze con un dna fortemente totalitario, che si sono combattute e trovato accordi prima di tutto per eliminare nella società italiana ogni traccia di pensiero libero e critico. La Democrazia cristiana ha ottenuto, con rare eccezioni, il Ministero della Pubblica istruzione e il Pci ha sempre avallato la politica clericale nel campo dell’istituzione, fino ad arrivare all’eccesso del primo governo retto da un ex-comunista, D’Alema, tutto proteso ad accordi con il berlusconismo e con la Chiesa cattolica.

E infatti fu proprio il suo ministro Luigi Berlinguer a varare quella legge n. 62 che è una vera e propria frode incostituzionale fondata su una truffa semantica. Fu inutile l’appello di Paolo Sylos Labini alla decenza: «“Senza oneri per lo stato” significa  senza-oneri-per-lo-Stato, e non con-oneri-per-lo-Stato». Ma già nel 2000 il paese correva a rotta di collo verso il disastro della politica e dell’etica pubblica in nome dell’arroganza del potere che tutto può, anche cambiare la lingua italiana. Un paese è morto se non ha più anticorpi, se non ha più una linguaggio comune. Il provvedimento di Luigi Berlinguer riesce ad aggirare il divieto costituzionale col trucco dei giocatori delle tre carte nei mercati.

Non c’è problema. La Costituzione vieta espressamente di finanziare pubblicamente le scuole private? Ma allora è sufficiente tenerle così come sono , ma semplicemente chiamarle “pubbliche”. Basta mettere nello stesso calderone scuole pubbliche, scuole confessionali e scuole private. Una soluzione da vero comunista di stampo gesuitico. Nessun ministro democristiano era stato così impudente da immaginare questo espediente. Ma forse persino i ministri democristiani avevano il pudore di non manomettere sfacciatamente il principio di ogni Stato moderno che stabilisce che la democrazia si fonda anche su una scuola pubblica dove si garantisca allo scolaro un insegnamento pluralizzato e non ideologico. Principio, questo, del tutto opposto alla pretesa di inculcare nelle menti infantili e adolescenziali verità rivelate o ideologie prefabbricate. Con la legge Berlinguer il paese ha fatto un balzo indietro di secoli e ha dovuto digerire questo vero e proprio insulto alla democrazia. Il paragone più calzante è quello con la critica che spesso viene rivolta a certi fasulli imprenditori italiani che pretendono che i profitti (in tal caso l’indottrinamento) siano privati e i costi siano pubblici.

La frittata ormai è fatta, e non sarà facile tornare indietro. Tuttavia rimane inaccettabile sul piano della logica. Le scuole confessionali (continueremo a chiamarle così perché la loro ragione di vita è ben differente dalle altre scuole private che sorgono per scopo solo di lucro) da sempre si propongono due finalità dichiarate: da una parte, la Chiesa cattolica sa benissimo che l’indottrinamento si fa a scuola e non in oratorio, e che la sua scuola ha come fine principale proprio l’indottrinamento. E se non fosse così non si capirebbero tutti gli sforzi organizzativi, gli immensi costi, le battaglie secolari per avere nelle proprie mani l’educazione dei bambini, e più piccoli sono e meglio è. La pretesa assurda, ma grazie al clericalismo comunista ora possibile, è di farsi pagare l’indottrinamento dallo Stato.

Ma in questo commento non voglio entrare nella questione finanziamento. L’articolo di Cecilia M. Calamani e più che esauriente, anche se paga la scandalosa mancata informazione sull’esatto ammontare di quanto aiuti pubblici arrivino alla Chiesa cattolica attraverso mille rivoli di finanziamento centrale e periferico. Ma, torno a dire, non enfatizzerei troppo l’aspetto finanziario, anche perché parla da solo.

Ciò che rende assolutamente inaccettabili la legge Berlinguer e l’attuale assetto scolastico è l’ideologia comunitaria che l’ispira, e che si può così riassumere: un paese non ha bisogno di un libero confronto di idee, di conoscenze e di valori, ma semplicemente della somma di corpi intermedi che, chiusi nelle loro convinzioni, si fronteggiano, spesso violentemente, in difesa di ciò che considerano la loro verità più o meno rivelata. Per farlo hanno bisogno di proprie scuole di indottrinamento. Al fondo c’è il rifiuto che hanno tutte le religioni totalitarie e le ideologie autoritarie di mettersi in discussione. Cosi la scuola è solo il primo passo non dell’educazione al pensiero critico ma della dottrina senza contraddittorio. Capite bene quale passo indietro nasconde tutto ciò.

Voi direte: ma tutto questo è teorico, non è detto che vada a finire così.

Invece, se la società italiana non darà segni di resipiscenza e di forte attaccamento al carattere democratico-liberale delle nostre istituzioni cadremo proprio in questo comunitarismo degenerato.

Quando l’immigrazione avrà stabilito nuovi rapporti numerici, questi problemi si porranno in modo dirompente. Già si avvertono i primi cenni di una possibile politica della gerarchia cattolica verso un accordo spartitorio con l’islam, vedi il recente intervento del cardinale Scola: ognuno si curi il proprio orto e i propri indottrinamenti, il tutto a spese dello Stato.

Che succederà quando il razzismo dell’estrema destra fascista e leghista moltiplicherà nelle scuole pubbliche le pretese identitarie di cattolicesimo, quando lo Stato retto da una classe politica senza principi e valori non saprà difendere il ruolo neutro della scuola pubblica critica e pluralistica, e per reazione altre religioni reclameranno di farsi, con i soldi pubblici, le proprie scuole “chiuse” con insegnanti ortodossi, come oggi devono essere ortodossi gli insegnanti delle scuole confessionali cattoliche iscritte nell’ipocrita “Sistema nazionale di istruzione”?

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1 commento

La scuola oggi: punti di vista a confronto 25 Febbraio 2016 - 14:38

[…] Nessuna intenzione, in queste poche righe, di dare fiato alle trombe del conflitto tra scuola pubblica e scuola privata – comunemente e semplicisticamente ridotto, quasi sempre, a conflitto tra scuola statale gratuita e scuola privata finanziata dallo Stato – per il semplice fatto che qui si vorrebbe considerare un’altra realtà: quella della scuola statale a funzione e servizio pubblico e quella della scuola non statale a sola funzione pubblica, che è la scuola paritaria… Continua su confronti.net […]

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