Fuocoammare
di Gianfranco Rosi
con Samuele Pucillo, Mattias Cucina, Samuele Caruana, Pietro Bartolo
Italia, 2016
Se la poesia documenta la tragedia
di Giorgio Brancia (videomaker e direttore della fotografia; filmmaker a TV2000)
Il documentario “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi, girato nell’isola di Lampedusa nel corso di un anno, ha vinto l’Orso d’Oro all’ultima Berlinale.
Da una parte Samuele, tredicenne lampedusano che ama giocare con la fionda – nonostante l’occhio con cui prende la mira sia “pigro” – e soffre di mal di mare, nonostante viva su un’isola dove fare il pescatore sembra sia non solo l’unica soluzione lavorativa, ma l’inevitabile scelta di vita. Dall’altra, centinaia di corpi arsi dal sole, dalle ustioni da nafta e dalla disidratazione che si riversano nel mare siciliano, su barconi di fortuna che affondano ben prima di arrivare in porto. In mezzo un medico, di una sensibilità straordinaria, capace di dividersi tra i quotidiani soccorsi ai migranti e le normali operazioni di presa in cura dei lampedusani, e che sembra il vero, unico punto di contatto tra gli “italiani” e gli “stranieri”. Il solo a toccare con mano, è proprio il caso di dirlo, la sofferenza di un popolo e l’inconsapevolezza di un altro. Sullo sfondo, Lampedusa, teatro di una vera e propria guerra ormai decennale (il “fuoco al mare” cui rimanda il titolo del film), capace di accogliere il corpo dell’altro, sia esso da curare o da accompagnare verso l’altro lato dello Stige.
Quel che ci racconta Fuocoammare in fondo è tutto qui: una documentazione intima, senza sviluppo e drammaticamente reale dell’emergenza profughi e, allo stesso tempo, una poetica, dolorosa metafora dell’agire umano. È per questo che, per apprezzarlo a pieno, occorre sbarazzarsi di alcune costruzioni mentali figlie di tanto (buon) cinema e (buona) tv d’inchiesta: dall’americano Michael Moore ai nostri reportage alla Report: nel film di Rosi non vedremo una macchina a spalla sobbalzante o un giornalista che rincorre, microfono alla mano, il politico o il presidente della multinazionale di turno; non c’è nessuno che seduto di fronte alla macchina da presa ci racconta “come vanno le cose”. No, in Fuocoammare ogni inquadratura è pensata, ogni movimento di macchina (pochi) è ragionato, la fotografia è a tratti straordinaria.
Quello di Rosi è «cinema meticcio, dove finzione e realtà si fondono, ibridandosi» (Santoli). In questo cinema non si documenta il reale, ma lo si manipola con il proprio sguardo e si restituisce una realtà figlia di quello sguardo, ma non per questo meno vera, aderente o degna di riflessione. A conferma di ciò, si pensi solamente al fatto che Rosi, durante la preparazione e le riprese del film, ha vissuto a Lampedusa per un anno intero, insistendo perfino affinché il suo montatore, Jacopo Quadri, montasse il girato sull’isola, e non negli studi romani.
Ciò che emerge da questa immersione totalizzante è un film dove, come ha scritto Goffredo Fofi, «le immagini sono sempre terse e bellissime, il montaggio sapiente, il coinvolgimento dello spettatore ogni volta […] suggerito senza violenza, con pudore e rispetto». Certo, alla prima visione, l’accuratezza delle immagini, anche nelle sequenze più drammatiche – come il lento movimento di macchina che attraversa la stiva di una nave ricolma di corpi di migranti ormai senza vita – può far storcere il naso a molti. Fuocoammare è un documentario in poesia, che procede per metafore (quindi, costituzionalmente, costruito). Rosi parla di questa tragedia umana (che troppo spesso si confonde nelle slabbrature del dibattito politico) a modo suo, alternando lirica a reale, recitazione a spontaneità, costruzione a decostruzione, cercando di parlare a un pubblico più ampio possibile. Ad un certo punto, il medico ci dice cosa significa accogliere e curare i migranti, o constatarne la morte: sono meno di cinque minuti di testimonianza accorata, dolorosa, a tratti quasi disperatamente impotente, che andrebbe fatta vedere non solo agli scolari, ma anche a tanti politici, funzionari o arrembanti capitani d’industria italiani.
A questo proposito, Mereghetti, celebrando la pellicola di Rosi, ha detto: «Non è un film politico». Non mi sento di essere d’accordo. Nella sua profonda leggerezza, nelle sue non parole, è un film decisamente politico, come nota giustamente Marshall: «Fuocoammare parte da un’isola che c’è, Lampedusa, per arrivare su un’isola che non c’è: l’emergenza profughi che l’Europa stenta ancora ad affrontare in modo veramente unitario e umanitario». Non solo l’Europa stenta ad affrontare, ma spesso risponde con le armi peggiori (vedi le ultime vicende austriache), come Rosi sembra volerci ricordare, in un ultimo momento metaforico, appena antecedente i titoli di coda: Samuele guarda al mare, vede delle piccole chiazze rosse (forse degli incendi), allora imbraccia un fucile immaginario, prende la mira e comincia a sparare.
(pubblicato su Confronti di maggio 2016)