di Luca Baratto (servizio stampa, radio e televisione della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, curatore della trasmissione “Culto evangelico” di Radio Uno)
Alcuni eventi di questi ultimi mesi, come la visita in Vaticano di una delegazione delle Chiese metodiste e valdesi ricevuta in udienza da papa Francesco il 5 marzo, hanno segnato degli importanti passi ecumenici. Come è cambiato, sia da parte cattolica sia da parte protestante, l’approccio al dialogo?
Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo si sono verificati tre eventi significativi per il rapporto tra le Chiese evangeliche italiane e la Chiesa cattolica romana. Vediamoli cronologicamente. Il 29 febbraio a Roma, gli esponenti delle Chiese che fanno riferimento alla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), sono stati invitati dai responsabili dell’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso (Unedi) della Cei per discutere insieme di un convegno nazionale sul protestantesimo, che l’Unedi organizzerà il prossimo novembre a Trento, alla vigilia del Cinquecentenario della Riforma protestante. A molti dei partecipanti evangelici questo invito, sebbene in un contesto e con modalità diverse, ha ricordato i Convegni ecumenici nazionali organizzati in passato, anche con la Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia, e ormai dimenticati da anni.
Il secondo evento è stata la visita in Vaticano di una delegazione ufficiale delle Chiese metodiste e valdesi che lo scorso 5 marzo è stata ricevuta in udienza da papa Francesco. È stata una prima assoluta nella storia dell’evangelismo italiano che segue e ricambia la visita di Francesco alla chiesa valdese di Torino il 22 giugno 2015. Nel corso dell’udienza uno dei temi affrontati è stato quello dei migranti e, in particolare, del progetto dei “corridoi umanitari” promosso dalla Fcei, dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Tavola valdese e che ha già portato in Italia, in modo legale e soprattutto sicuro, un centinaio di famiglie siriane. Il giorno dopo – e questo è il terzo evento – Francesco ha voluto citare, durante l’Angelus in piazza San Pietro, proprio questi corridoi, «segno concreto di impegno per la pace e la vita», evidenziandone il carattere “ecumenico”.
Insomma, l’atmosfera è veramente cambiata da quando, alcuni anni fa, il segretario generale del Consiglio ecumenico delle chiese, pastore Olav Fykse Tveit, regalò a Benedetto XVI un paio di guanti di lana a simboleggiare un ecumenismo che doveva attrezzarsi a temperature invernali! Il tempo è cambiato sia in Vaticano e negli uffici della Cei sia nelle Chiese evangeliche. Vorrei sottolineare questo secondo punto, meno evidente nel racconto delle cronache ecumeniche di questi anni che, giustamente, hanno dato molto risalto alle aperture di Francesco, impensabili nel contesto cattolico solo fino a qualche anno fa. Tuttavia, molto è cambiato anche tra i protestanti italiani. Per esempio, è davvero sorprendente che una delegazione evangelica si sia recata ufficialmente in Vaticano in un anno giubilare. Per cogliere il cambiamento è sufficiente fare un confronto con il Giubileo del 2000, il periodo più freddo, glaciale addirittura, del lungo inverno ecumenico. Se si sfogliano le raccolte dell’agenzia stampa della Fcei, Nev/Notizie evangeliche, si inizia nel gennaio 1999 con un editoriale del teologo valdese Paolo Ricca dal significativo titolo “Non si può mettere il vino nuovo dell’ecumenismo negli otri vecchi del Giubileo” e si continua in un crescendo polemico fino al “digiuno ecumenico” messo in atto da diverse chiese evangeliche locali che non parteciparono alla Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (Spuc) del 2000. Certo, all’epoca gli evangelici avevano reagito a oggettive provocazioni – il fatto che il Giubileo si aprisse il 18 gennaio, giornata inaugurale della Spuc, imponendo un evento confessionale al dialogo ecumenico; l’enfasi sulla dottrina tradizionale delle indulgenze proprio nel periodo in cui veniva firmato la Dichiarazione congiunta cattolico-luterana sulla dottrina della giustificazione per fede, solo per citare i principali “schiaffi” ecumenici – ma non si può comunque non notare che in questo 2016 la polemica sul Giubileo non sia una priorità della stampa evangelica. L’atteggiamento è cambiato: se, di per sé, il giubileo continua ad avere tutte le caratteristiche dell’“otre vecchio” – per esempio, continua ad avere tutti gli elementi necessari per sottolineare che la gestione della misericordia di Dio passa necessariamente attraverso la struttura della Chiesa romana – tuttavia, oggi lo si è percepito come un evento cattolico, definito nei confini di quella confessione cristiana e per questo, nonostante sussistano molteplici e non indifferenti obiezioni teologiche, del tutto legittimo. Questo è un cambiamento non da poco che le Chiese valdesi e metodiste, in particolare, hanno messo in atto ma che, mi sembra, forse non hanno ancora davvero elaborato consapevolmente, cosa che potrà avvenire in una discussione che valuti gli eventi e i passi ecumenici di questi ultimi mesi.
Più in generale, mi sembra che in Italia sia ai suoi primi passi un ecumenismo che rinuncia alla polemica e vuole puntare di più sulla dimensione positiva della testimonianza cristiana. Ne è un esempio evidente, la bella ed efficace collaborazione tra Fcei, Tavola valdese e Sant’Egidio sui corridoi umanitari – che alcuni hanno incominciato non a caso a definire “corridoi ecumenici”. La collaborazione sui corridoi umanitari non è solo “ecumenismo della carità” ma è anche riconoscimento dell’affidabilità e dell’autenticità, e anche della sostanziale convergenza, della testimonianza cristiana resa dai diversi partner, protestanti e cattolici. Tuttavia, non si deve pensare che un “ecumenismo della testimonianza” sia più facile da gestire, perché anch’esso prevede il passaggio attraverso dei punti particolarmente controversi. Solo per rimanere alle Chiese metodiste e valdesi, la loro testimonianza in positivo prevede, tra l’altro, il sì alla benedizione di coppie omoaffettive e un convinto appoggio alla diffusione del testamento biologico. Né si deve pensare che l’“ecumenismo della testimonianza” si possa risolvere in una primazia del “fare”, come se le azioni umane risolvessero i guai prodotti dal confronto teologico, mentre molto spesso è proprio il nostro fare a complicare le cose. Credo che nell’intrecciarsi di questo nuovo clima ecumenico e il Cinquecentenario della Riforma protestante, l’anno prossimo, il protestantesimo italiano debba farsi promotore, in ambito ecumenico, del primato della teologia che, nei termini della Riforma, significa il primato di Dio e della sua grazia rispetto ad ogni struttura umana, sia essa ecclesiastica, concettuale o sociale. Nel 2011, Benedetto XVI, nel suo viaggio a Erfurt (Germania), luogo della formazione teologica di Martin Lutero, aveva detto che l’importanza del Riformatore consisteva nelle sue fondamentali domande su Dio. E quelle domande non erano state suscitate da una società atea ma da una diffusa pratica cristiana che rendeva irraggiungibile la dimensione liberatoria dell’evangelo. Credo che i protestanti italiani abbiano proprio questa eredità da offrire ancora, soprattutto in un dialogo ecumenico che spesso limita il concetto di teologia alla dottrina, creando impasse insuperabili. Quest’idea del primato della teologia, intesa come primato di Dio e della sua grazia e non primato della dottrina, potrebbe aiutare anche la questione ecclesiologica. Il dialogo sull’essere chiesa non si può limitare a ciò che diceva la teologia di Lutero o di Calvino, o al riconoscimento o meno degli “strumenti di grazia”, ma deve aprirsi al riconoscimento di quei milioni di persone che oggi e in passato, richiamandosi ai principi della Riforma, hanno vissuto autenticamente la loro fede, espresso la loro testimonianza, predicato la Parola del loro Signore e che sono autenticamente chiesa per “grazia di Dio”.
(pubblicato su Confronti di aprile 2016)