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L’omofobia a scuola

by redazione

di Cristina Obber (giornalista e scrittrice; tra i suoi libri: “Siria mon amour” e “L’altra parte di me”; scrive sul blog “La27esima ora” del Corriere della sera, su cui questo articolo è stato pubblicato).

Mi chiedono spesso che cosa dicono i ragazzi nelle scuole. Da nord a sud, dai licei classici ai professionali, i ragazzi e le ragazze non sono un’entità omogenea, come non lo siamo noi adulti. Serve precisarlo? Sì, serve, perché spesso sentiamo parlare di adolescenti in termini assoluti, che non li rappresentano. Rispetto all’omosessualità sento dire le cose più diverse, e anche quando ciò che sento non mi piace mi rendo benissimo conto di quanto sia importante anche solo pronunciare ad alta voce certe parole, certe sensazioni, condividerle, mettere in fila i pensieri.

Come quando Matteo, 17 anni, mi dice che gli omosessuali gli fanno schifo; quando chiedo a lui e ai suoi sostenitori quali altre “categorie” di persone gli fanno schifo si parla di barboni, e anche di tossici, ma senza motivazioni che oltrepassino la misera soglia del «perché sono dei falliti»; per alcuni tutto ciò che esce dal modello di maschio eterosessuale virile socialmente riconosciuto come vincente è un perdente, e allora meglio tenerlo lontano, non esserne contaminati. Meglio schifarlo, appunto. Ma Matteo e i suoi sostenitori non rappresentano “gli adolescenti” ma se stessi, perché nella discussione che nasce in molti alzano la mano per dire altro, si alzano i toni e in alcuni momenti fatico a farli parlare uno alla volta. Obiettivo centrato, parlare, dirsi cose che vengono solitamente sintetizzate in una battuta, in uno sguardo, in un insulto o in un silenzio.

E invece bastava un’occasione per entrare in relazione gli uni con gli altri e guardarsi severamente negli occhi e raccontarsi qualcosa di più personale, di più intimo, qualcosa di cui non si parla mai lasciando che tra vicini di banco si resti in fondo quasi degli sconosciuti.

Mi ricordo Greta, 16 anni, che ha la migliore amica lesbica ed è felice per lei, «Però mi dà fastidio che non si baci con la sua ragazza a casa sua», e in quel “però” c’è tutta la sua omofobia, lieve ma intransigente, che lei non riconosce su se stessa mentre si dichiara libera; ed è su quel “però” che si apre una nuova discussione perché la gabbia del disagio è in Greta e non nella sua amica che è così libera da baciarsi la fidanzata davanti a tutti.

Quando Jacopo, 18 anni, dice che Dio ci vuole etero, è un suo compagno ad alzare la mano e ribattere che Dio ci ama come siamo, e sugli inviti di Gesù Cristo all’accoglienza si apre un altro momento e le mani alzate sono così tante che quando suona la campanella mi dispiace tanto non aver dato parola a tutti.

Quando Margherita, che fa la terza, si alza e fa un bel discorso sul valore dell’amore che in natura può assumere tante forme ma sempre amore è, arriva un grande applauso perché sembra che siano lì ad aspettare qualcosa di buono, qualcosa che abbia a che fare con la gioia e non con l’odio con cui li martelliamo ogni giorno.

C’è chi è davvero sereno verso l’omosessualità ma magari passando a parlare di transessualità va in crisi, comincia a fare distinzioni che più stereotipate non si può e allora si scopre che in molti non conoscono nemmeno le parole, non sanno la differenza tra orientamento e identità, vanno ad intuito, ci provano, perché nessuno gliel’ha spiegate bene e in fondo loro non hanno mai sentito il bisogno di andare su Google a chiarirsi le idee. Nel 2016, tanti mezzi di informazione, poco approfondimento. Perché tanto nessuno su questo ti aveva mai interrogato? Perché ti accontenti di aver capito più o meno? Sembra di no, perché la partecipazione è forte, è come se aspettassero “il via” di fronte a una linea bianca.

C’è chi sa riconoscere da sé che l’omofobia sta anche in una barzelletta, nel dirsi “frocio” per scherzo, nelle piccole cose a cui nessuno dà importanza.

Ci sono anche ragazzi e ragazze che sono già avanti, e li invidio perché io alla loro età non lo ero così, che conoscono e condividono l’omosessualità di amici e amiche, ma che in classe non ne parlano, tengono questa loro esperienza per sé, perché che si tratti di un “argomento” è chiaro ovunque, anche perché spesso sono gli insegnanti stessi a definirlo così, a non parlarne in attesa che arrivi l’esperto/a, al pari di un incontro sull’educazione stradale.

E gli/le insegnanti che ne parlano, che mi invitano, che consigliano il mio e altri libri, che ne leggono pagine ad alta voce, si ritrovano a dover lottare con colleghi o presidi che invece di apprezzarli li osteggiano, osteggiati a loro volta da genitori confusi.

Come la professoressa di Bassano del Grappa che ha coinvolto il suo istituto nel progetto “Basta il colore” ed è stata richiamata perché ha “esagerato” con le iniziative. Lei non molla, ma questo le costa una fatica ingiusta. Le sue alunne la seguono, anche in orario extra scolastico, ma sono delle privilegiate, la maggior parte degli studenti di questo paese certe occasioni – e certe prof – non ce l’ha.

Restiamo rinchiusi nei nostri piccoli universi proprio nel luogo che più di ogni altro dovrebbe aprirci gli sguardi sul mondo. Rimaniamo in silenzio, ognuno per sé, nel luogo che dovrebbe insegnarci cos’è la socialità, come si diventa cittadini, quali le regole della convivenza serena e rispettosa delle vite degli altri, così che Greta non penserebbe di avere quel diritto al bacio in pubblico che alla sua migliore
amica è la prima a voler negare.

Non impariamo ad accogliere le differenze e le innumerevoli sfumature della vita, e la bellezza di questa vita, nel luogo che dovrebbe sviluppare in noi quell’empatia che farebbe avere meno paura a Matteo, che prova schifo per ciò che non capisce senza dare un nome ai propri limiti.

Ho visto il bellissimo film Un bacio di Ivan Cotroneo (che andrebbe proiettato in tutte le scuole), appena uscito nelle sale. In quel film ho ritrovato la scuola che incontro, e per questo ho pianto. Ho pianto per quella crudeltà celata, che serpeggia e fa male, fa male a chi la agisce e fa male a chi la subisce.

Ho pianto per il racconto di come potrebbe e dovrebbe essere. Di come sarà. Perché prima o poi anche qui le cose andranno diversamente, siamo in movimento e il cambiamento è forte e ci trascinerà tutti, ma mentre tergiversiamo è proprio la scuola a produrre disagio e stupidità, dolore e solitudine, ed è insopportabile.

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