di Roberto Bertoni (giornalista free lance e autore di saggi, romanzi e poesie)
Anche se le sue probabilità di ottenere la nomination alla presidenza degli Stati Uniti nella convention democratica di luglio sono scarse, il “socialista” Bernie Sanders sta creando qualche difficoltà alla collaudata macchina elettorale di Hillary Clinton. Il ruolo chiave della generazione dei “Millennials”.
Probabilmente, al termine delle primarie democratiche, prevarrà Hillary Clinton: più rodata, più esperta della macchina del potere, sostenuta da tutti i pezzi da novanta del partito e capace di far breccia nel cuore di quelle minoranze nere e ispaniche verso cui da anni, fin dai tempi in cui era presidente suo marito Bill, manifesta un sincero interesse. Attenzione, tuttavia, a credere che quella dell’ex first lady ed ex segretario di Stato sarà una passeggiata, perché sul suo cammino ha incrociato un rivale su cui nessuno, all’inizio della competizione, avrebbe scommesso un soldo e che invece sta mettendo in seria difficoltà una donna tanto potente quanto emblematica di tutto ciò che gli americani non sopportano più.
Dire Clinton, infatti, vuol dire liberismo, in forma neanche troppo gentile rispetto alla versione originale reaganiana; vuol dire “terza via”, ossia l’illusione degli anni Novanta che ha condotto tutta la sinistra a destra, regalando a quest’ultima la guida del pianeta nel decennio successivo; vuol dire banche, vuol dire finanza, vuol dire denaro a volontà, vuol dire difesa strenua e immotivata del sistema capitalista e delle sue iniquità, vuol dire differenza di classe (perché la Clinton che parla dei poveri, oggettivamente, fa un po’ sorridere); insomma, vuol dire tutto ciò di cui intere generazioni stanno patendo sulla propria pelle le conseguenze.
Dire Sanders, al contrario, significa parlare di socialismo, inclusione, uguaglianza nelle opportunità, rispetto per il prossimo, attenzione nei confronti delle minoranze, difesa dell’ambiente, lotta contro lo strapotere e i soprusi delle multinazionali; e ancora, significa parlare di un nuovo modello di crescita, di sviluppo e del modo di stare insieme: in poche parole, è il ritorno a una visione comunitaria, collettiva e contraria all’individualismo sfrenato tipico del liberismo, che in America non si vedeva da almeno trentacinque anni.
Per questo, pur essendo più anziano di Hillary Clinton, “nonno Bernie” sembra assai più giovane: perché lo è. Lo è nel cuore, nell’anima, nelle idee, nei ricordi: profuma di marce per i diritti civili, di kennedismo, di sostegno alle battaglie del reverendo King, di manifestazioni contro la guerra del Vietnam, di pensiero liberal, di atlantismo maturo e aperto ad una nuova collaborazione con l’Europa, ponendo fine all’unilateralismo bushiano cui già Obama ha inferto una serie di colpi.
Sanders, a differenza di Clinton, si presenta agli occhi dell’opinione pubblica statunitense come un “candidato di spostamento”, ossia un candidato non in grado di imporsi in prima persona ma comunque capace di spostare la vincitrice annunciata della sfida su posizioni assai più di sinistra rispetto a quelle con le quali si è presentata all’esordio. La Clinton dell’estate scorsa, se ricordate, era il ritratto della sinistra “imborghesita”, subalterna al pensiero unico dominante e determinata, al massimo, a correggere alcune note su uno spartito scritto da altri; la Clinton attuale è una donna che parla già da candidata in pectore alla Casa Bianca, ma mettendo al centro dei suoi discorsi la lotta contro le disuguaglianze, il salario minimo, la tutela del paesaggio, la necessità di garantire un avvenire prospero anche a chi è rimasto indietro e l’importanza di offrire ai giovani le stesse opportunità delle quali hanno goduto le generazioni precedenti, ossia i cavalli di battaglia del suo sfidante.
E allora chi ha vinto fra Hillary e Bernie? Ha vinto Sanders, capace di battersi con tenacia e umiltà, lealtà e sguardo rivolto al futuro e di restituire alla politica un universo, quello giovanile, che senza il suo impegno a costruire insieme un’egemonia culturale di segno opposto rispetto a quella che ha caratterizzato l’ultimo trentennio sarebbero stati perduti per sempre.
Perché i “Millennials”, ossia i ragazzi nati a cavallo fra i due millenni, altro non sono che la generazione che si è affacciata alla politica e alla vita nel pieno della crisi, mentre i dipendenti della Lehman Brothers abbandonavano il posto di lavoro con gli scatoloni in mano, la finanza mondiale mostrava tutta la prepotenza di cui è capace e l’economia reale andava in frantumi, fra aziende chiuse, fabbriche vicine al fallimento, milioni di disoccupati e infine la rabbia, la passione, l’impegno e la mobilitazione dei ragazzi di Zuccotti Park: il movimento che voleva occupare Wall Street per rilanciare e far giungere al mondo intero le ragioni del 99 per cento della popolazione contro quelle dell’1 per cento che con la crisi si è arricchito alle spalle dei più deboli.
Erano in piazza a New York ed erano accampati alla Puerta del Sol di Madrid; erano in piazza in Grecia e hanno cantato Bella ciao insieme ad Alexis Tsipras; hanno spinto Jeremy Corbyn verso la conquista della segreteria del Labour dopo vent’anni di blairismo e si battono in Italia in difesa della Costituzione e dell’ambiente.
Sono la generazione cresciuta nell’incertezza, senza ideologie né modelli di riferimento, senza esempi politici cui ispirarsi, in contrasto con la generazione dei quarantenni oggi al potere, la quale incarna tutto ciò che loro contestano, e in piena sintonia, all’opposto, con i nonni che hanno vissuto gli anni del boom, della speranza planetaria di un avvenire migliore, della rinascita e della piena occupazione, che possono raccontare loro chi erano i Beatles e che si sono detti disponibili a prenderli per mano.
Sono la generazione di internet, certo, ma non crediate che l’attivismo di questi ragazzi non sappia andare al di là della scatola magica chiamata computer. Più che una socialdemocrazia, possiamo dire che hanno in mente una “democrazia social”, nella quale far convivere vecchie e nuove tecnologie e nella quale ciò che conta, più di ogni altra cosa, è il condividere, il collaborare, lo stare insieme, il ribellarsi alla logica malata dell’egoismo che ha segnato la stagione politica dei sostenitori del concetto thatcheriano secondo cui «la società non esiste».
Per i “Millennials”, o ci si salva tutti o non si salva nessuno. È, dunque, una “Meglio gioventù 2.0”, perfettamente calata nell’era del villaggio globale, colta, cosmopolita e aperta ai diritti e alle libertà degli ultimi e degli esclusi; una minoranza che vuole contare, che rivendica un nuovo protagonismo sociale e che ha trovato in Sanders un’icona, un apripista, una bandiera da seguire in attesa di maturare e raccoglierne il testimone.
Anche per questo nonno Bernie è il vero vincitore delle primarie democratiche: perché l’approdo di Hillary alla Casa Bianca è un traguardo; il suo è l’inizio di un percorso che proprio quei giovani idealisti sono destinati a portare, un domani, a compimento.
(pubblicato su Confronti di aprile 2016)