di Giorgio Gomel
Questo il titolo, sintetico, di un seminario di studio e riflessione organizzato da Jcall Italia, in collaborazione con le riviste Il Ponte (che ha dedicato alla “questione israeliana” un suo recente numero monografico) e Mondoperaio, svoltosi il 16 maggio presso l’Aula dei gruppi parlamentari. I lavori del Seminario, registrati nella loro interezza da Radio radicale, si possono seguire sul questo link.
Jcall (www.jcall.eu) è un movimento di ebrei europei solidali con Israele, difensori del suo diritto a esistere in pace e sicurezza e preoccupati per il suo futuro di stato ebraico e democratico. Jcall , fondato nel 2010 sulla base di un “Appello alla ragione” sottoscritto da oltre 9000 persone, ritiene esiziale per Israele la continua espansione degli insediamenti e la mancanza di una strategia volta a porre fine ad un’occupazione che dura da quasi 50 anni e a giungere a un accordo di pace che consenta ai palestinesi di dare vita a uno stato sovrano, piccolo, ma territorialmente contiguo, e a Israele di esistere in pace come stato democratico degli ebrei. Se non si giunge a un accordo sui confini, gli insediamenti, lo status di Gerusalemme, la stessa nozione di “due stati per due popoli” rischia di evaporare nel mondo onirico del mito. La ragione che ci ha spinto ad affrontare il tema in questi giorni è da un lato la percezione che nel frangente attuale il conflitto israelo-palestinese è quasi “relegato” in secondo ordine dalla disgregazione del Medio Oriente, il terrorismo islamista, il cataclisma politico e umanitario che investe la regione e dall’altro l’esigenza di decifrare quanto accade in Israele, fra le forze politiche e nell’opinione pubblica. Quanto accade in Israele, data l’asimmetria di potere effettivo sul campo rispetto al mondo palestinese, è difatti determinante per il corso degli eventi. I palestinesi hanno compiuto errori immani, dal terrorismo suicida contro i civili israeliani all’inutile guerra di guerriglia mossa dalla striscia di Gaza, ma sono oggi divisi fra West Bank e Gaza, Autorità nazionale palestinese e Hamas, osteggiati dal mondo arabo, largamente impotenti. Essi non sono cittadini dello stato in cui vivono, sia esso il West Bank o la striscia di Gaza, dove non esercitano il diritto di voto da 10 anni, né votano per le istituzioni dello stato – Israele – che di fatto controlla la loro esistenza quotidiana. Ma ritenere che il conflitto fra Israele e Palestina sia oggi un qualcosa di meno rilevante e che lo status quo possa essere sostenuto indefinitamente è un errore . La convinzione così prevalente in Israele che il conflitto possa essere “gestito” in forme “a bassa intensità” senza essere risolto è illusoria così come l’idea che nel disordine regionale convenga a Israele non assumere un’iniziativa di pace e attendere gli eventi. I costi umani e materiali della “non pace” sono infatti enormi, come attestano gli orrori della guerra di Gaza del 2014 o le aggressioni a colpi di coltello che insanguinano da mesi le strade di Israele e del West Bank e la minaccia crescente di un degrado della democrazia e della stessa convivenza fra arabi ed ebrei in Israele.
Oltre allo stallo politico e al perdurare del conflitto, vi è una profonda separazione fra le due società, quella ebraico-israeliana e quella arabo-palestinese. Nella psicologia dei palestinesi Israele è l’occupante, l’aggressore; per gli israeliani i palestinesi sono il nemico omicida, ingrato e irriducibile che non merita fiducia né diritti di popolo e stato. Un regresso profondo dalla filosofia degli accordi di Oslo del 1993 il cui presupposto era il riconoscimento reciproco di diritti: quello di Israele a un futuro di pace e sicurezza, quello dei palestinesi ad uno stato indipendente e degno di questo nome.
Nella sua relazione Stefano Levi della Torre, saggista e scrittore, ha discusso il quadro convulso del Medio Oriente, a un secolo esatto dagli accordi Sykes-Picot in cui Inghilterra e Francia, le potenze europee allora egemoni, stabilirono i confini interstatuali della regione. Oggi quegli stati sono in fase di disfacimento ed è in atto una guerra civile “intraislamica”. Anche per Israele e Palestina, la soluzione dello stato-nazione, voluta storicamente dai due movimenti nazionali – quello ebraico con l’affermarsi dell’idea sionista e quello palestinese con il formarsi di un’identità nazionale nell’incontro-scontro con il sionismo, la nascita di Israele e soprattutto la conquista dei territori nel 1967 – sarà una fase transitoria, ma è l’unica possibilità, difficile, ma necessaria. Altre soluzioni, uno stato unico o forme confederali, appartengono a un futuro incerto e lontano. È possibile oggi un’alleanza, o almeno una confluenza di interessi fra Israele e i palestinesi che maggioritariamente ricercano una maggiore libertà e democrazia e si oppongono alla marea montante del radicalismo islamista.
Il primo relatore israeliano è stato Gidon Bromberg, codirettore di Ecopeace Middle East – una Ong tripartita israelo-giordano-palestinese che si occupa di ambiente ed acqua, un unicum del genere nel vasto universo di tante Ong in cui israeliani e palestinesi cooperano, pur con grandi difficoltà, per superare quella separazione “disumanizzante”, nonché le barriere della paura, dell’odio, del rifiuto di riconoscere l’altro. Opera detta “people to people” spesso percepita come qualcosa di bello, ma inutile, ininfluente sul corso degli eventi. Anzi osteggiata, in campo palestinese dal movimento di “antinormalizzazione”, che si oppone, in alcuni casi anche con minacce fisiche rivolte agli attivisti, ad ogni forma di cooperazione con Israele, fino a quando perdura l’occupazione e il negoziato di pace è bloccato, e in Israele dall’atteggiamento dell’attuale governo, tradottosi in disegni di legge all’attenzione della Knesset, che discrimina le Ong israeliane attive nel campo dei diritti umani e della pace. Bromberg ha mostrato come la questione dell’acqua sia essenziale nella regione, come Israele (in virtù della tecnologia avanzata in materia di trattamento delle acque di scarico e di impianti di desalinizzazione) abbia un surplus di produzione rispetto al consumo corrente e come potrebbe risolvere il dramma della scarsità di acqua potabile che grava invece sulla Cisgiordania e soprattutto sulla striscia di Gaza, dove la situazione sanitaria è a forte rischio di epidemie. La questione dell’acqua, che dagli accordi di Oslo è uno dei cinque oggetti del negoziato, insieme ai confini, gli insediamenti, i rifugiati, lo status di Gerusalemme, potrebbe essere risolta in modo equo, efficace e benefico per le parti in causa e offrire anche un esempio per la soluzione delle altre questioni contese.
È poi intervenuto Koby Huberman, cofondatore con Yuval Rabin – figlio dell’ex primo ministro Yitzhak assassinato vent’anni or sono – della Israeli Peace Initiative, un’associazione costituitasi nel 2011 con esponenti dell’accademia, imprenditoria, esercito, intelligence per sollecitare quella parte dell’opinione pubblica di centro e pragmatica, ma scettica o rassegnata all’idea di un conflitto irrisolvibile, a mobilitarsi e agire per giungere a una soluzione pacifica. Una soluzione che può scaturire soltanto se al negoziato fra le due parti si affianca un accordo regionale che lo sostenga sia sul piano economico, per la riabilitazione dei rifugiati palestinesi da integrarsi in parte in un futuro stato di Palestina e in parte nei paesi arabi, sia su quello strategico per fornire a Israele le necessarie garanzie di sicurezza in una regione ora scossa da acuti sconvolgimenti. A questo fine Israele dovrebbe accettare l’offerta di pace e di normali rapporti avanzata dalla Lega araba nel 2002 e riaffermata in anni recenti, reagire alla paralisi e al crescente isolamento diplomatico, e cogliere le opportunità offerte da un oggettivo convergere di interessi con l’Autorità palestinese e gli stati arabi, soprattutto Arabia Saudita, Giordania, Egitto ed emirati del Golfo, per opporsi all’estremismo islamista da un lato e alla minaccia iraniana dall’altro. Insomma, urge un’iniziativa di pace da Gerusalemme.