di Brunetto Salvarani (teologo, saggista, direttore di Qol)
Lo scorso 12 maggio, parlando all’Unione Internazionale delle Superiore Generali, a una domanda sulla creazione di figure diaconali al femminile, papa Francesco ha risposto di voler costituire una commissione che studi la questione. Tanto è bastato per rilanciare non solo l’idea di ordinare delle donne in una Chiesa che, com’è noto, non le ammette a divenire presbitere, ma anche per rilanciare un dibattito sul loro ruolo complessivo: lo stesso Bergoglio, nell’occasione, ha ammesso che in ambito ecclesiale «è molto debole l’inserimento delle donne nei processi decisionali».
L’intervento è passato nell’opinione pubblica per il tema donne e diaconato: il che, ha evidenziato la presidentessa del Coordinamento teologhe italiane, Cristina Simonelli, mostra che i tanti rifiuti a discutere l’argomento nel mezzo secolo che ci separa dal Vaticano II non sono per nulla condivisi nella comunità ecclesiale. Non solo dalle donne, consacrate o no, ma anche da molti uomini.
Al riguardo, ritengo sia urgente interrogarsi da parte del magistero, dei teologi e delle teologhe, su quale posto sia assegnabile alla soggettualità attiva delle donne in vista di un corpo ecclesiale realmente collettivo. Su cosa sia necessario per una chiesa cattolica chiamata a riscoprirsi, sempre più e meglio, «comunione di uomini e donne, uno in Cristo» (Gal 3,28). E, ancora, data la conoscenza che ora possediamo della lenta e graduale evoluzione delle forme di esercizio e di comprensione del ministero succedutesi nel corso dei secoli, su una trasformazione delle figure ministeriali che includa la componente femminile. Cosa fattibile, si badi, senza modificare quanto definito dalla lettera apostolica di Giovanni Paolo II del ’94 (anno spartiacque, con l’ordinazione delle prime donne-presbitero nella chiesa d’Inghilterra) Ordinatio sacerdotalis, che dice irreformabile la posizione cattolico-romana. Qui, d’accordo con Serena Noceti (che da tempo vi sta riflettendo puntualmente), credo siano ormai superate le logiche di subordinazione e di un androcentrismo indiscusso che hanno accompagnato l’interpretazione delle relazioni uomo-donna nelle Chiese per secoli, anche se l’appello alla complementarità di maschile e femminile resta tutt’ora per molti (e molte) punto di riferimento per pensare la vita ecclesiale; mentre persino quando si usa l’espressione “reciprocità” il modello sotteso vira più verso la complementarità di caratteristiche psicologiche e attitudini dell’uno o dell’altro sesso che non verso una partnership effettiva, segnata da corresponsabilità e autonomia riconosciute reciprocamente, di maschi e femmine. Un primo passo per affrontare tali nodi è, appunto, l’idea di un’ordinazione diaconale al femminile, come hanno fatto, qualche tempo fa, alcune Conferenze episcopali.
Studi di teologhe e teologi, patrologi e storici, attestano con chiarezza la presenza di donne diakonos/diakonissa nel primo millennio e, pur con diverse interpretazioni date alle funzioni esercitate nei vari contesti, dicono di una presenza ecclesiale femminile qualificata, non assimilabile a una generica diakonia laicale: dato confermato da rituali specifici di ordinazione. Il diaconato, richiamato in alcuni dialoghi ecumenici e non escluso da un documento del 2003 della Commissione teologica internazionale («Il diaconato: evoluzione e prospettive »), rappresenta una forma di esercizio del ministero ordinato possibile per le donne, poiché la lettera di Wojtyla dichiara l’impossibilità di conferire alle donne un’ordinatio sacerdotalis, che è propriamente dell’episcopato e del presbiterato; mentre l’ordinazione diaconale è conferita, spiega Lumen gentium al n. 29, non ad sacerdotium sed ad ministerium. Un cambiamento strutturale e di forme di esercizio è, dunque, non solo possibile sul piano teorico, ma anche, a mio parere, necessario, sollecitato da nuove esigenze pastorali. L’odierno contesto culturale, sociale ed ecclesiale manifesta infatti inediti processi di definizione dell’identità di uomini e donne e inedite necessità pastorali (ed ecumeniche): fino a rendere doverosa la domanda su quale trasformazione sia oggi non solo plausibile, ma indilazionabile.
(pubblicato su Confronti di giugno 2016)