di Massimo Gnone (referente nazionale area migranti Diaconia valdese – Csd)
La Diaconia valdese, Oxfam Italia e Borderline Sicilia hanno presentato il progetto “Open Europe”, che comprende un’unità mobile e una piccola accoglienza per i casi più vulnerabili a Pachino, in collaborazione con la Chiesa valdese locale e con il sostegno dell’Otto per mille valdese.
La parola hotspot, come decine di altre, è un anglicismo entrato senza bussare nel nostro vocabolario. Se alla maggior parte degli italiani hotspot fa pensare ai punti WiFi per accedere a internet, nei documenti ufficiali prevale la traduzione “punto di crisi”, benché i media preferiscano l’inglese hotspot, solo apparentemente più tecnico, sancendo il suo ingresso nel lessico comune della migrazione. Come rileva la traduttrice Licia Corbolante, nei documenti della Commissione europea «il termine è usato per due diversi concetti: centro di prima accoglienza e zona alla frontiera esterna dell’Ue interessata da pressione migratoria sproporzionata».
Scorrendo le “Procedure operative standard applicabili agli hotspots italiani” redatte dal Ministero dell’Interno, leggiamo che possono esserci «due diverse accezioni» di hotspot. La prima: «un’area nella quale le persone in ingresso sbarcano in sicurezza e vengono avviate, nel caso di richiesta di Protezione internazionale, verso le procedure per l’attribuzione di tale status, comprese quelle di ricollocazione, ovvero avviate verso le procedure di espulsione». L’hotspot sarebbe anche «un metodo di lavoro in team, all’interno del quale le autorità italiane lavorano a stretto contatto ed in piena cooperazione con i team europei di supporto».
In Italia i centri hotspot ufficialmente operativi sono quattro: Lampedusa, Trapani e Pozzallo in Sicilia, e Taranto, in Puglia, anche se almeno altri due sarebbero ormai pronti: a Messina, dove il sindaco si è già fatto sentire parlando di «strutture-lager», e soprattutto presso il famigerato Centro accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo (Cara) di Mineo, in provincia di Catania: il 6 giugno scorso è scaduto il bando ministeriale «per la realizzazione della recinzione dell’area destinata ad hotspot per migranti presso il Residence degli Aranci di Mineo». Tuttavia, scrive Oxfam Italia nel suo report “Hotspot, il diritto negato”, più che di centri hotspot si dovrebbe parlare di un «approccio hotspot», che in molti casi «contrasta in modo palese con quanto previsto dalla legge non solo in materia di protezione internazionale, ma anche di violazione della libertà personale».
Perché un approccio hotspot? La Commissione europea vuole che l’Italia proceda ad acquisire le impronte digitali di tutte le persone sbarcate sul suo territorio che, stando al regolamento di Dublino III, dovranno completare l’iter di richiesta di protezione internazionale in Italia. La Commissione lamenta la scarsa efficienza del nostro Paese in questa procedura: basti pensare che, su oltre 42mila siriani arrivati nel 2014, solo 500 di loro presentarono domanda d’asilo in Italia. Nel 2015 mancano all’appello 70mila persone (quasi il 40% del totale), che dopo essere arrivate nel nostro paese non sono state identificate e si sono recate in altri paesi.
L’Italia si è impegnata a migliorare questo processo a patto che siano mantenute le promesse di rilocazione in altri paesi dei sicuri titolari di protezione internazionale, secondo quanto stabilito dall’Agenda europea sulla migrazione. Ad ammettere il fallimento della relocation è la stessa Commissione: entro maggio 2016 avrebbero dovuto essere rilocate almeno 20mila persone, ma a metà giugno appena 2.280 risultavano effettivamente rilocate (1.503 dalla Grecia e 777 dall’Italia; Communication from the Commission to the European Parliament, the European Council and the Council. Fourth report on relocation and resettlement, 15 giugno 2016).
Nei mesi scorsi a migliaia di persone sbarcate in Sicilia e passate negli hotspot è stato consegnato un foglio di “respingimento differito” in cui veniva loro intimato di lasciare l’Italia entro sette giorni poiché considerate a priori come “migranti economici” e quindi impossibilitati a presentare domanda d’asilo. Naturalmente quasi nessuno è rimpatriato, rimanendo sul territorio e andando a ingrossare le fila degli irregolari. Come denuncia nel suo blog (dirittiefrontiere.blogspot.it) Fulvio Vassallo Paleologo, professore di Diritto di asilo a Palermo, moltissime persone sono state indotte a firmare «fogli di cui non comprendono la portata, e tanto vale ad escluderli dalla procedura di asilo», che è e deve rimanere un diritto soggettivo e indipendente dalla nazionalità, mettendole fuori de facto dal sistema di accoglienza.
Per assistere le persone escluse e monitorare un quadro in continua evoluzione, la Diaconia valdese, Oxfam Italia e Borderline Sicilia hanno presentato lo scorso 19 maggio a Roma, alla Camera dei deputati, il progetto “Open Europe”, che comprende un’unità mobile – un’auto con a bordo un operatore legale e un mediatore culturale – e una piccola accoglienza per i casi più vulnerabili attivata dalla Diaconia valdese a Pachino, in provincia di Siracusa, in collaborazione con la Chiesa valdese locale e con il sostegno dell’Otto per mille valdese.
«Nell’ultimo periodo– racconta Paola Ottaviano, avvocato di Borderline Sicilia – la situazione sta evolvendo: da un lato si adottano decreti di espulsione e non più di respingimento, dall’altro si disperdono i migranti che non rientrano nelle capacità del sistema di accoglienza. Sono persone identificate ma anche non identificate, alle quali, una volta arrivate in altre regioni, viene chiesto se vogliono restare in Italia o se vogliono andare via e quindi essere abbandonate a loro stesse. Si tende ad attuare queste prassi fuori dal territorio siciliano, forse per renderle meno visibili rispetto ai mesi scorsi».
Accantonata da parte delle autorità la politica dei «respingimenti differiti», spiega Andrea Bottazzi, operatore di Oxfam Italia sull’unità mobile, «ci stiamo orientando verso nuove vulnerabilità emergenti: minori non accompagnati, neomaggiorenni, persone escluse o costrette a lasciare le accoglienze».
Per contatti e per sostenere il progetto: Giusy Latino, operatrice Diaconia valdese a Pachino, openeurope@diaconiavaldese.org.
(pubblicato su Confronti di luglio/agosto 2016)