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Libano: lo stato tampone dei conflitti regionali

by redazione

di Sara Manisera (giornalista freelance; collabora anche con Al Jazeera, Qcode, SiriaLibano.)

Foto libano

[da Beirut, Libano] Schizofrenia. È questa la parola più giusta per descrivere il Libano. Un paese del Mediterraneo stretto in una crudele morsa tra Israele, l’acerrimo nemico, e il regno dello Sham, dominato da Damasco. Da una parte il calcio in pancia a intervalli costanti da parte di Israele (nel 1978, 1982, 1993, 1996, 2006, 2008, 2012), dall’altra la lunga mano siriana che, fino al 2005, ha inserito le dita nelle piaghe del paese dei cedri.

Cedri appunto, un tempo abbondanti, ma anche uliveti e vigneti, montagne e valli. Da Faraja, cittadina a un’ora – traffico permettendo – da Beirut, si scia guardando il “mare di mezzo”. Nella valle della Bekaa, conosciuta per l’hashish libanese, templi di epoca romana dominano, con tutta la loro maestosità, il panorama montagnoso e brullo di Baalbek. A Tripoli, Saida e Sur la cultura araba, fenicia, bizantina, greca e romana si fonde con armonia: i pescatori su piccole imbarcazioni escono in mare con lentezza, i mercanti trattano nel suk a gran vociare il prezzo delle spezie, i carretti di legno pieni di frutta occupano i budelli e i mastri vetrai riproducono fedelmente a mano il vetro in forni antichissimi.

Ma il Libano è anche una distesa di centri commerciali senza fine e di lunghe braccia metalliche che sorvolano la città. Enormi scatoloni luminosi si susseguono uno dopo l’altro e disturbano la vista. Scheletri mostruosi di cemento armato abbandonati si alternano a stazioni di benzina. Discariche e latrine a cielo aperto, rifiuti e campi profughi decorano i bordi delle strade. Il traffico è psicotico. Auto di grossa cilindrata sorpassano senza senso su una strada a tre corsie, occupata in modo disordinato in tutte le sue parti. Insegne con nomi italiani, francesi e inglesi spiccano tra le esigue scritte in arabo.

Di rado, luci ceree in lontananza e punte di campanili adiacenti ai minareti rammentano la presenza di villaggi ancora autentici. Lì, case antiche in granito e pietra abbondano ma restano intrappolate nella superficialità e nell’opulenza di una società schizofrenica, ibrida tra mare e montagna, tra modernità e arretratezza, meravigliosamente promiscua.

Una convivenza complessa

Vittima di cliché e di pregiudizi sul confessionalismo (ta’ifiyya, in arabo) che lo contraddistingue, questo fazzoletto di terra andrebbe analizzato secondo il periodo storico che esso attraversa. Il confessionalismo e la convivenza più o meno pacifica di diverse comunità sono fenomeni sempre esistiti; a seconda della fase temporale, una delle comunità confessionali (ta’ifa) rivendica un ruolo maggiore nella gestione del potere che può sfociare in una crisi o conflitto più o meno detonante. L’intensità però varia soprattutto in base al grado d’ingerenza di molteplici attori, regionali (Arabia Saudita, Egitto, Siria, Iran) e stranieri (Francia, Stati Uniti), che compaiono a fasi alterne nelle dinamiche interne libanesi a sostegno dell’una o dell’altra comunità. Il Libano, infatti, rimane teatro di giochi regionali, e non, che mantengono e animano uno stato di tensione permanente.

Ripassando il libro di storia moderna del Libano emerge palesemente che esso ha sempre avuto un arbitro esterno e straniero; prima il governatore ottomano tra il 1816 e il 1914, poi con la caduta dell’impero ottomano subentra la Francia che eredita il mandato sul Libano dal 1920 al 1946, mitigato dal periodo d’indipendenza del paese. Durante la guerra civile (1975-1990) il protettorato straniero viene meno per poi essere riconquistato da Damasco che lo detiene e lo esercita in base ai suoi interessi e al contesto internazionale, tramutandolo in vero e proprio dominio – anche grazie a Stati Uniti e Unione europea – fino al febbraio del 2005, quando dopo l’assassinio dell’ex primo ministro e uomo d’affari miliardario Rafik Hariri (non si sa ancora da chi, ndr)e la conseguente rivoluzione dei cedri, le forze siriane lasciano il Libano.

Oggi il Libano si ritrova in una fase di paralisi e di coma vegetativo causato dal sistema istituzionalizzato del comunitarismo politico, eredità delle politiche coloniali europee. Il sistema politico del Paese infatti, è organizzato lungo linee confessionali dal Patto nazionale del 1943, un accordo non scritto che ha istituzionalizzato il confessionalismo libanese. Il presidente del Parlamento deve essere un musulmano sciita, il primo ministro un musulmano sunnita e il presidente della Repubblica un cristiano maronita. Un sistema che, di fatto, paralizza il paese impedendo una vera alternanza tra governo e opposizione poiché ripartisce le istituzioni in quote confessionali. Tutti ci devono essere e nessuno deve essere escluso. Un patto rafforzato dagli accordi di Ta’if del 1989, che misero fine alla guerra fratricida durata tre lustri e che dovevano servire a traghettare il paese oltre il confessionalismo, ma che invece l’hanno affossato ancora di più.

L’effetto più evidente di questa paralisi oggi è l’incapacità di eleggere il presidente della Repubblica. Da due anni, le due alleanze, l’8 marzo (Hezbollah, sciiti di Amal, il movimento Marada di Suleiman Frangieh e i cristiani del Movimento patriottico libero del generale Aoun che sostengono il regime di Bashar Al Assad) e il 14 marzo (Movimento del futuro, il partito sunnita di Saad Hariri, il Partito socialista progressista druso di Walid Jumblatt e l’ala cristiana maronita composta dalle Forze libanesi di Samir Geagea e dalle Falangi di Amin Gemayel, antisiriani) non trovano un accordo sul nome del presidente, che per prassi deve essere cristiano maronita.

Le ingerenze esterne

In realtà, quest’apparente divisione intracomunitaria offusca ancora una volta le dinamiche regionali in cui il Libano ricopre il ruolo secolare di stato tampone. Da una parte troviamo l’Iran, grande alleato di Hezbollah, impegnato militarmente in Siria a fianco delle forze lealiste. Dall’altra troviamo l’Arabia Saudita, incarnata da Saad Hariri (che ha un passaporto saudita, ndr), figlio del defunto primo ministro, che nei mesi scorsi ha deciso di sospendere il programma di armamenti di 4 miliardi di dollari alle Forze armate libanesi e ha invitato i suoi concittadini a non recarsi in Libano per punire il paese per la continua dominazione di Hezbollah sullo Stato libanese e sulla politica estera.

Entrambi gli attori tuttavia, non hanno interesse a innescare un conflitto su scala nazionale; i primi perché si sono fatti garanti della pace, i secondi perché possiedono ingenti investimenti economici e fondiari nel paese. Solo la Siria troverebbe vantaggioso il dilagare della violenza in Libano per polarizzare le comunità sunnita e sciita e dimostrare che il cancro della regione è il fondamentalismo sunnita.

Un’uscita “morbida” dal confessionalismo?

L’unica speranza che il Libano ha per uscire da questo ruolo di Stato tampone assegnatogli dalla geopolitica da più di due secoli è avviare una riforma del sistema politico cercando di abbandonare il confessionalismo, senza però privare le comunità di quelle protezioni che garantiscono la rappresentanza. In questo modo si avvierebbe un processo di costruzione di una cittadinanza libanese ancora inesistente.

Un segnale verso questo cambiamento è giunto con le ultime elezioni municipali. Per la prima volta la società civile si è unita intorno a un progetto politico comune di rinnovamento e di cambiamento presentando una lista composta da dodici donne e dodici uomini di diversa estrazione sociale e confessionale. Beirut Madinati (“Beirut la mia città”) non ha vinto ma è sicuramente un primo passo verso l’acquisizione di una vera sovranità.

(pubblicato su Confronti di luglio-agosto 2016)

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