di Monica Di Sisto (vicepresidente dell’associazione Fairwatch, tra i portavoce della Campagna Stop Ttip Italia – www.stopttip-italia.net)
Proseguono in segreto i negoziati del Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti per la creazione della più grande area di libero scambio al mondo (44% del commercio mondiale). Le conseguenze per l’Occidente e per i Paesi in via di sviluppo.
6,5 miliardi: sono tutti gli abitanti del pianeta che, non essendo cittadini degli Stati Uniti né dell’Europa, in teoria potrebbero volersi disinteressare del negoziato transatlantico di liberalizzazione di commercio e servizi in corso, quasi in segreto, dal 2013: il Ttip. In realtà, se le trattative arrivassero in fondo, creerebbero la più grande area di libero scambio interregionale al mondo, pari al 47% del Pil mondiale e al 44% del commercio mondiale, cosa che avrebbe implicazioni molto profonde non soltanto per le due sponde dell’Atlantico. Il 75% circa della facilitazione degli scambi tra i due blocchi, infatti, arriverà dalla rimozione delle attuali “barriere” che rendono gli scambi più complessi di quanto non vorrebbero le grandi imprese che operano attualmente su questa scala.
Sottolineiamo che, a livello di dazi, dogane e quote d’importazione – le barriere commerciali classiche – i prezzi dei prodotti importati diventano in media più cari di circa il 4%. Pochissimo per giustificare un’operazione politica di questa portata. Ci sono settori più protetti, come quelli del tessile, degli alimentari e pochi altri, dove i cosiddetti ostacoli dipendono, in realtà, dalle regole che ci siamo dati per difendere il welfare e l’ambiente, i diritti dei lavoratori, le norme di sicurezza alimentare (comprese le restrizioni in materia di Ogm), la normativa in materia di uso di sostanze chimiche tossiche, le leggi sulla privacy digitale e persino le nuove garanzie bancarie introdotte negli Stati Uniti per evitare il ripetersi della crisi finanziaria del 2008.
Le nostre priorità imposte al resto del mondo
I nostri amici del resto del pianeta potrebbero pensare di poterci compiangere, noi europei ed americani, per la scelta sbagliata che facciamo di svendere diritti così importanti alle ragioni di un commercio già abbastanza sostenuto e libero, e di lasciarci cuocere da soli nel nostro errore. Sbaglierebbero, però. Il Ttip infatti, oltre alle previsioni commerciali che vuole introdurre, creerebbe un Consiglio economico transatlantico che andrebbe a plasmare le regole commerciali sulle esigenze di Usa e Ue e che, valendo a questo punto oltre la metà del Pil globale, avrebbe la possibilità di imporre al resto del mondo le proprie priorità in tutte le organizzazioni internazionali dove oggi, a partire dall’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), Stati Uniti ed Europa faticano ad imporre le proprie esigenze su quelle dei Paesi emergenti, a partire da Cina, India, Brasile e Russia, come invece facevano un tempo.
Ci sono diversi aspetti-chiave che differenziano questo accordo da tutta la politica commerciale che abbiamo conosciuto finora, e che sono specificamente indirizzati a colpire la eventuale competizione dei paesi emergenti:
– la maggior parte delle loro condizioni è modellata sulle strutture produttive e commerciali dei Paesi sviluppati, a partire da quelle multinazionali;
– molte clausole sui diritti di proprietà intellettuale previste sono più restrittive di quelle introdotte dal trattato Trips della Wto, e ostacolerebbero, ad esempio, la produzione e la diffusione di farmaci a basso costo o di tecnologie amiche dell’ambiente;
– non toccano i settori agricoli altamente protetti e sussidiati dei paesi sviluppati, ma spingono verso un abbassamento generalizzato dei prezzi che butterebbe fuori mercato tutti quei sistemi produttivi che non possono permettersi una politica di sussidi;
– subordinano, di fatto, l’ambiente e il lavoro alla liberalizzazione del commercio;
– permettono alle grandi imprese che possono pagarsi cause commerciali da centinaia di migliaia di dollari di citare in giudizio gli Stati quando alcune loro regole vecchie o nuove possano tradursi in violazioni dei contratti di investimento, anche se nate per proteggere i diritti dei cittadini. Quando queste regole passassero nel mercato più grande del pianeta, chi non sottoscrivesse nel resto del mondo le stesse clausole, disposizioni e regole, si ritroverebbe marginalizzato nel commercio mondiale. Parliamo, dunque, di un corpo contundente che intende dettare gli standard stabiliti da e per gli interessi delle imprese dei paesi sviluppati, sulla pelle di tutto il mondo, che esso lo voglia o no.
L’impatto sui paesi in via di sviluppo
La struttura permanente che lavorerebbe sull’armonizzazione di regole e standard tra Europa e Usa, la cosiddetta Cooperazione regolatoria, potrebbe avere un drammatico impatto negativo sullo spazio di manovra politica per i Paesi in via di sviluppo, e molto probabilmente imporrebbe un effetto frenante nei loro processi legislativi che, per non essere esclusi da questo enorme mercato potenziale transatlantico, tenderebbero di fatto ad uniformarsi agli standard messi in piedi dal Ttip.
D’altronde il presidente Usa Obama ha più volte sostenuto che stringere forti legami economici in tutto l’Atlantico è «un modo per mostrare alle nostre opinioni pubbliche e al mondo chi siamo in fondo al cuore in Europa e in America [sic] e che le nostre sono economie basate sulle regole, società basate su valori, e siamo fieri di esserlo».
La prima obiezione che ci verrebbe da fare, in un momento in cui soprattutto in Europa pezzi interi delle nostre società soffrono una brutale riduzione di diritti e opportunità sotto la scure delle politiche di austerity, è che non sembra poi bellissimo «chi siamo in fondo al cuore», almeno in questa sponda dell’Atlantico.
In secondo luogo, sarebbe interessante capire quale assetto valoriale si rivendichi nei colloqui tra Commissione europea e governo degli Stati Uniti quando con il Ttip si spinge per introdurre anche nei nostri stati la commercializzazione di carne cresciuta con ormoni e anabolizzanti, Ogm di vecchia e nuova generazione per l’alimentazione umana, una più debole protezione della privacy, l’azzeramento dei sistemi di etichettatura, ma più in generale di quegli standard sociali e ambientali che costituiscono un costo che le grandi imprese, in modo esplicito, sostengono di non voler più pagare.
Il commercio al di sopra dei diritti umani
Con un trattato commerciale, insomma, si sta mettendo nei fatti in discussione il ruolo dello Stato, la fornitura da parte sua di servizi pubblici e la preminenza del commercio sui diritti umani e sui diritti sociali. Il cuore di quella democrazia che con molto sussiego e dispiegamento di forze, in altri casi, ci siamo sentiti autorizzati ad esportare in giro per il pianeta con costi elevatissimi, economici e di vite umane.
Quando a questa operazione, per di più, sovraintende una corte internazionale che, se istituita con il Ttip, permetterebbe alle imprese – e non agli stati e ai loro cittadini – di citare in giudizio le istituzioni democratiche quando introducessero o volessero conservare delle regole che fanno problema ai loro affari, l’operazione di spoliazione progressiva delle sovranità statali delle proprie prerogative di regolazione sarebbe, a nostro avviso, compiuta. Di questi meccanismi di giudizio, in misura decisamente più ridotta, ce ne sono molti già di operativi, legati a specifici trattati di investimenti, e nel 63% dei casi condannano gli stati a costosissime compensazioni nei confronti delle grandi imprese che li citano.
Il Ttip, infine, cristallizzerebbe, per via commerciale, definitivamente la contraddizione del principio sancito dai trattati fondativi dell’Unione che vorrebbe che attraverso le politiche commerciali e di investimento l’Europa promuovesse l’aumento della coerenza delle politiche per lo sviluppo (Pcd), cioè della considerazione degli obiettivi di sviluppo dei Paesi terzi in tutte le politiche non di sviluppo (come il commercio).
Un accordo chiuso che cementi il punto di vista delle vecchie superpotenze globali non ci sembra, in questa direzione, e a questo livello di instabilità globale che ci vede minacciati dai nostri errori nelle nostre stesse case, una buona strategia politica, né estera né interna.
Fermare il Ttip e darci il tempo di affrontare il problema della crisi globale, commerciale, finanziaria ed umana con strumenti più inclusivi, umani ed efficaci, ci sembra una priorità assoluta, non sacrificabile a nessun interesse di bottega. Nemmeno transatlantica.
(pubblicato su Confronti di luglio/agosto 2016)