di Roberto Bertoni
Come cambieranno i rapporti fra Europa e Stati Uniti in seguito all’elezione del miliardario newyorkese.
Ci sono due modi per affrontare la traversata del deserto che l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca ci pone davanti: uno è maledire l’8 novembre 2016 e trascorrere i prossimi quattro anni a protestare e basta, l’altra è la via giusta.
Per scongiurare che il “trumpismo”, con le sue pratiche rudi e la sua visione del mondo a tratti intollerabile, si trasformi in una nuova egemonia culturale della destra repubblicana, bisogna innanzitutto liberarsi dell’idea che questo magnate delle costruzioni (con le sue torri, il suo marchio, il suo reality e la sua capacità di penetrare nell’immaginario collettivo attraverso prodotti televisivi di scarsa qualità e largo consumo) sia un fulmine a ciel sereno piovuto sulle nostre teste all’improvviso. Non è così: nella storia, e in particolare in politica, rivoluzioni di questa portata non avvengono mai dall’oggi al domani.
Così, se il liberismo arrembante di Reagan prese avvio dalla candidatura di un altro “impresentabile”, Barry Goldwater nel ’64, e covò per tutti gli anni Settanta, fino ad esplodere nell’80 dopo che la Thatcher aveva fatto breccia, un anno prima, nel Regno Unito, se un ex attore di modesta caratura ebbe un impatto così dirompente sugli equilibri mondiali, bisogna prendere atto che anche il trumpismo ha la sua base storica e un percorso a metà fra l’intrattenimento, il genio imprenditoriale e la pratica politica allo stato puro.
Se il “reaganismo” e la Reaganomics traevano spunto da un lungo lavoro di costruzione di un’egemonia culturale conservatrice che ebbe in Nixon un primo rappresentante e in Reagan e Bush senior il suo culmine, va detto che Trump afferisce a una matrice del tutto diversa ma nient’affatto estranea alla storia del Partito repubblicano.
Se Reagan e i Bush costituiscono gli alfieri della corrente dei cosiddetti “neocon”, ossia dei repubblicani interventisti, internazionalisti e convintamente liberisti in politica economica, Trump si colloca, al contrario, nel perimetro dei cosiddetti “paleocon”, ossia dei repubblicani storici, fondamentalmente isolazionisti, protezionisti in politica economica e desiderosi di abrogare, o comunque di limitare, tutte le conquiste ottenute nel corso degli ultimi decenni sul terreno dei diritti civili. Non più, dunque, una destra libertaria e liberista bensì una destra dotata di una certa matrice sociale ed estremamente arretrata sul tema dei diritti, perfettamente in linea con il comune sentire delle aree rurali, operaie e sostanzialmente segregazioniste che costituiscono la sua roccaforte.
Per avere un’idea di quale potrebbe essere la politica estera trumpista, bisogna invece prendere come punti di riferimento due presidenti democratici lontani nel tempo ma assurti a paradigmi di due opposte concezioni del ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Se la Clinton sarebbe stata senza dubbio una presidentessa di stampo wilsoniano, nel solco di quell’interventismo democratico che ebbe in Woodrow Wilson il capostipite e in Bill Clinton l’ultimo degno interprete, Trump sarà, con ogni probabilità, un presidente di matrice jacksoniana, nel solco di Andrew Jackson e della “Dottrina Monroe”, basata sul concetto de «l’America agli americani», ossia di due visioni tipicamente ottocentesche che si mescoleranno, con altrettanta probabilità, a chiusure simili a quelle che caratterizzarono il decennio repubblicano a cavallo tra gli anni Venti e gli anni Trenta del XX secolo, rappresentando una triste ma significativa parentesi fra l’esperienza wilsoniana e il decennio rooseveltiano, nel pieno della crisi economica e di un malessere sociale dovuto a una disoccupazione che raggiunse vette impressionanti.
A tal proposito, è doveroso ricordare gli errori compiuti dalle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale a Versailles nel ’19 (alla base del crollo della Repubblica di Weimar e della successiva ascesa di Hitler) e l’avvento del regime fascista in Italia, con la Marcia su Roma del ’22, le elezioni del ’24 e il discorso di Mussolini alla Camera del 3 gennaio 1925: questi disastri coincisero con tre presidenti americani (Harding, Coolidge e Hoover) che improntarono la propria azione di governo all’isolazionismo, ribaltando il paradigma wilsoniano in base al quale bisognava «rendere il mondo sicuro per la democrazia».
Tutto ciò dimostra quanto, piaccia o non piaccia, l’America sia indispensabile per un’Unione europea che non può prescindere né da una sana alleanza pacifica con le potenze emergenti (Cina e India su tutte) né da una sana alleanza atlantica con una nazione alla quale, al netto dei suoi indubbi limiti e delle sue notevoli contraddizioni, dobbiamo storicamente molto.
Aggiungo che, in questo clima di sfacelo internazionale, l’Europa avrebbe la straordinaria, e forse irripetibile, occasione di strutturarsi come Unione politica, dotandosi di un governo coeso e democraticamente eletto dai cittadini, di un minimo di credibilità internazionale e di trattati improntati al bene comune, a cominciare da tematiche scottanti come il clima e la salvaguardia ambientale, e non più, prevalentemente, ai dogmi del liberismo selvaggio figlio della Reaganomics. Senza contare che potrebbe rendersi autonoma su molti aspetti cruciali, primi fra tutti i temi della difesa e della sicurezza, essenziali in una stagione nella quale siamo costretti a confrontarci con la ferocia del terrorismo jihadista e con una questione imprescindibile come l’immigrazione, la quale, se gestita male, costituisce il più grave e pericoloso dei problemi mentre, se venisse gestita al meglio, valorizzando l’integrazione e punendo ogni forma di sfruttamento e di illegalità, potrebbe trasformarsi in una risorsa straordinaria per un Occidente alle prese con un evidente calo demografico e un progressivo invecchiamento della popolazione.
Peccato che per realizzare il sogno dei padri del progetto europeo occorrerebbe una classe dirigente dello stesso livello, il che purtroppo non è alle viste. Oltretutto, il 2017 si preannuncia come un anno decisivo per l’intera costruzione continentale, in quanto andranno al voto Francia, Olanda, Germania e forse pure l’Italia, ossia quattro dei sei paesi fondatori, e dall’esito delle urne rischiano di emergere dei fattori di disgregazione pressoché irrimediabili. E se la Merkel sembra nelle condizioni di salvarsi, per quanto indebolita e costretta a fare i conti con l’avanzata degli euroscettici di Alternative für Deutschland, in Francia non è affatto da escludere l’ascesa di madame Le Pen mentre in Olanda si fa strada l’assai discutibile Geert Wilders e in Italia, al netto delle sorti di Renzi, rischiamo seriamente di ritrovarci in preda al caos.
Per scongiurare quest’ecatombe, tuttavia, tanto sull’una quanto sull’altra sponda dell’Atlantico, e naturalmente anche a Bruxelles, è indispensabile accantonare un paradigma socio-economico ormai insostenibile e ricostruire una sinistra degna di questo nome, in grado di farsi carico, senza populismi né fondamentalismi di sorta, della rabbia e della disperazione degli ultimi e degli esclusi, prima che la mistica dell’odio, generata dalle loro indicibili sofferenze, inizi a mettere in discussione il concetto stesso di democrazia.