di Isabel Fanlo Cortés (professoressa associata di Sociologia del diritto all’Università di Genova – Dipartimento di giurisprudenza)
Dopo che a ottobre un referendum aveva bocciato – per pochi voti – l’accordo di pace raggiunto in estate tra il Governo colombiano e le Farc, a novembre si è finalmente giunti alla formulazione di un nuovo accordo. Il ruolo svolto dalle chiese evangeliste.
Dopo più di mezzo secolo di accesi conflitti armati e quasi quattro anni di negoziati, il Governo colombiano e le Farc (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia), il 24 agosto scorso, hanno siglato un accordo di pace (Acuerdo Final para la Terminación del Conflicto y la Construcción de una Paz Estable y Duradera) a L’Avana (Cuba).
Il testo originario di quest’accordo era contenuto in un imponente documento di 297 pagine, dove erano (e sono tuttora, anche nella versione attuale) specificati i sei punti considerati fondamentali per porre fine a una guerra civile che è costata centinaia di migliaia di vittime al popolo colombiano. I punti più salienti riguardano due aspetti: in primo luogo, l’impegno per il cessate il fuoco bilaterale, con la riconsegna delle armi da parte delle Farc, da cui dipenderà la possibilità di trasformarsi in un movimento politico legalmente riconosciuto; in secondo luogo, l’istituzione di un complesso sistema di strumenti giurisdizionali e non (Sistema integral de Verdad, Justicia, Reparación y No Repetición), a cui è affidato il duplice compito, tra gli altri, di riparare i torti subiti dalle vittime dei conflitti, attraverso la ricostruzione della memoria storica e dunque l’accertamento di fatti e responsabilità, e di punire i colpevoli, mediante l’irrogazione di sanzioni alternative al carcere per chi confesserà i propri reati in un’ottica di giustizia transizionale (solo ai responsabili di delitti politici sarà concessa l’amnistia o l’indulto). Non meno importanti, le dettagliate previsioni dell’accordo in tema di riforma agraria e di partecipazione politica, oltre a quelle dedicate alla soluzione del cruciale problema del narcotraffico, che ha contribuito a finanziare il più longevo gruppo armato del Continente.
L’uso del passato è d’obbligo, però, in quanto l’accordo siglato a L’Avana, per quanto rimasto inalterato nella struttura, è stato nel frattempo modificato in più parti. In tutti i casi, non aveva la pretesa di essere un atto immediatamente produttivo di effetti, visto che il presidente colombiano Juan Manuel Santos aveva deciso, fin dall’inizio, di affidare l’ultima parola ai cittadini. Benché nessuna norma gli imponesse di farlo, come promesso in campagna elettorale, il 2 ottobre scorso ha infatti sottoposto l’accordo a un “plebiscito” (qualcosa di analogo all’istituto del referendum, che pure è contemplato dal diritto colombiano).
Gli esiti fallimentari di questa consultazione popolare sono noti quanto inattesi. Ancora una volta i sondaggi si sono dimostrati inutili strumenti di previsione, se è vero che avevano preannunciato la vittoria del sì, mentre, seppur per pochi voti, ha prevalso il no (con il 50,2% di voti contro il 49,7%). Il dato più significativo, oltre a un altissimo tasso di astensioni (più del 60%), è che, secondo la fondazione Pares, proprio nelle zone più colpite dal conflitto armato si è imposta la voce favorevole all’accordo di pace.
In tempi record – del tutto inediti per i processi decisionali della politica – il presidente Santos, nel frattempo nominato premio Nobel per la pace, ha riaperto i negoziati con le Farc, avviando al contempo un processo di consultazione con i movimenti dell’opposizione, e a cominciare dal partito del Centro Democrático, capeggiato dall’ex presidente Álvaro Uribe, il volto più noto della campagna contro l’accordo di pace sottoposto al plebiscito.
Nel giro di 40 giorni, i negoziatori di entrambe le parti hanno lavorato instancabilmente per giungere alla formulazione di un nuovo accordo, che è stato reso pubblico solo a metà novembre. Si potrebbe discutere se davvero si tratti di un “nuovo” accordo; sta di fatto che le modifiche sostanziali non sono quantitativamente poche. Le più significative riguardano: il ridimensionamento dei meccanismi di partecipazione politica degli (ex) guerriglieri; l’introduzione di più rigidi limiti alle modalità di esecuzione delle misure alternative al carcere per i rei confessi di delitti di lesa umanità; la limitazione del cosiddetto blocco di costituzionalità alle sole parti del trattato relative al diritto internazionale umanitario e i diritti fondamentali previsti dalla Costituzione, per cui solo queste parti, e non l’intero testo dell’accordo come previsto in precedenza, potranno essere considerate parte integrante del testo costituzionale (con tutti gli effetti giuridici che ne derivano).
Si tratta di modifiche che cercano di venire incontro alle istanze avanzate dal fronte dell’opposizione, o almeno a quelle più moderate, visto che la richiesta più diffusa, ma anche più stravolgente rispetto al disegno originario, riguarderebbe la previsione di pene più severe nei confronti dei responsabili del conflitto armato, o almeno di coloro che si sono macchiati dei reati più gravi: una richiesta comprensibilmente inaccettabile per il governo, in quanto interromperebbe le trattative con le Farc.
È ancora presto per fare valutazioni sull’impatto che avrà il nuovo accordo sull’opinione pubblica e se servirà a far ricredere il fronte del no, peraltro molto eterogeneo al suo interno.
Nel frattempo, merita attenzione il ruolo di primo piano che hanno assunto le chiese cristiane evangeliche – il riferimento è soprattutto a chiese non riformate, per quanto il linguaggio giornalistico non sia sempre preciso al riguardo – nella fase di rinegoziazione dell’accordo di pace, anche grazie all’attenzione mediatica di cui sono state oggetto. Le chiese evangeliste costituiscono, in effetti, una realtà importante in Colombia e in costante crescita: i dati del Ministero dell’Interno parlano di circa 10 milioni di persone raccolte in quasi 6000 chiese registrate.
Si spiega, quindi, l’interesse della politica verso questo significativo bacino di voti che, in occasione del plebiscito, si è prevalentemente schierato contro l’accordo di pace. Non stupisce che Uribe, durante la sua campagna per il no, sia stato spesso avvistato a raduni di pastori o in mezzo a folle concitate di loro fedeli, né che Santos, subito dopo gli esiti referendari, abbia voluto incontrare gli stessi pastori e anzi farli sedere al tavolo delle trattative.
Nelle dichiarazioni rese dai loro rappresentanti alla stampa, i motivi del dissenso di molte chiese evangeliste nei confronti della linea governativa ruotano attorno a due questioni principali. La prima è che l’accordo trascurerebbe di considerare i cristiani come vittime privilegiate dei conflitti armati, la seconda è che lo stesso, nel mostrare tanta attenzione all’orientamento sessuale e all’identità di genere come fattori meritevoli di specifica tutela, veicolerebbe idee «contro Dio» (la cosiddetta «ideologia gender»), mettendo in discussione il paradigma eteronormativo su cui si fonda l’unico modello di famiglia accettabile.
Puntualmente, l’allarme legato al diffondersi di una non meglio precisata «ideologia gender», dai contenuti misteriosi e anche per questo minacciosi, torna ad affacciarsi ogni qualvolta nello spazio pubblico vi siano segnali di apertura nei confronti del riconoscimento dei diritti delle persone Lgbti. Così è accaduto in Francia in occasione dell’approvazione delle legge sul matrimonio egualitario, e anche in Italia, dove centinaia di persone hanno partecipato alla manifestazione del “Family day” per protestare contro l’allora disegno di legge sulle unioni civili. Le parole d’ordine della crociata antigender sono ovunque sempre le stesse (la “vera” famiglia è solo quella fondata da un uomo e una donna, tutto il resto è contro natura) e di recente sono tornate a risuonare con prepotenza anche in Colombia, in relazione a fatti che a ben vedere nulla hanno a che fare con il processo di pace, ma di sicuro hanno influenzato l’esito del plebiscito e a questo scopo sono stati sapientemente utilizzati. Non mi riferisco solo alle polemiche suscitate dalle sentenze della Corte costituzionale che hanno esteso il matrimonio e l’adozione alle coppie dello stesso sesso, ma anche agli attacchi personali rivolti alla ministra dell’educazione Gina Parody, a seguito della proposta di includere precetti antidiscriminatori nei manuali scolastici.
Tanta carica sovversiva rispetto all’ordine sociale esprimono certe parole – come “genere”, appunto – che toglierle dal vocabolario può rassicurare gli animi, aiutando a rimettere le cose, e anche le persone, al proprio posto. L’hanno capito Santos e gli altri negoziatori che, in fase di revisione dell’accordo bocciato dal popolo, hanno optato per un uso deflattivo di “genere” (che ora compare 55 volte, contro le 144 della prima versione, e sempre come mero sinonimo di “genere femminile”), bandendo dall’accordo ogni richiamo all’orientamento sessuale e all’identità di genere come fattori di speciale protezione.
Certo, anche nella nuova versione dell’accordo rimane in piedi il principio di non discriminazione – per cui l’orientamento sessuale e l’identità di genere devono essere considerati motivi vietati di discriminazione – ma le persone Lgbti ritornano nel limbo dei soggetti innominabili. Un prezzo alto per la pace.
(pubblicato su Confronti di dicembre 2016)