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La Corte che perde i pezzi

by Enzo Nucci

di Enzo Nucci (corrispondente della Rai per l’Africa sub-sahariana)

Negli ultimi tempi si moltiplicano le defezioni da parte di paesi africani dalla Corte penale internazionale dell’Aja. Alcuni l’accusano di aver preso di mira solo loro, utilizzando due pesi e due misure. Anche per Amnesty international la Corte metterebbe l’accento su alcune situazioni e ne minimizzerebbe altre. La Corte si difende ricordando anche le inchieste su conflitti non africani: Colombia, Palestina, Ucraina e Afghanistan.

«La nostra grande famiglia è in difficoltà», ha dichiarato il capo dell’ufficio degli avvocati della Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja commentando l’uscita dall’organismo di tre stati africani nello scorso ottobre. Ma la situazione si è ulteriormente aggravata, suscitando un grande clamore mediatico, quando il 16 novembre anche la Federazione Russa ha detto addio allo Statuto di Roma, nato nel 1998 con l’obiettivo di prevenire crimini di guerra e consolidare la pace nel mondo attraverso la creazione del Tribunale penale. I russi accusano la Corte di mancanza di indipendenza perché aveva definito la Crimea «un territorio occupato», sottolineando così il coinvolgimento di Russia e Ucraina nel conflitto. A dare il via alle defezioni è stato il presidente del Burundi (sotto accusa della Corte da aprile per violazione dei diritti umani durante la repressione delle proteste di piazza), che il 12 ottobre ha annunciato il ritiro dalla Cpi. Tre giorni dopo è toccato al Sudafrica, che non ha accettato le critiche rivoltegli dal Tribunale internazionale per non aver proceduto all’arresto del presidente sudanese Omar Al-Bashir (ricercato dal 2009 per crimini di guerra e contro l’umanità in Darfur) in occasione di un vertice dell’Unione Africana tenutosi a Pretoria nel 2015 (si veda Confronti 7-8/2015). Le autorità sudafricane si sono difese affermando che non potevano procedere all’arresto su mandato di cattura internazionale di un capo di Stato in carica e coperto dall’immunità diplomatica.

Il 27 ottobre alla lista dei ritiri si è aggiunto anche il Gambia, che attraverso il presidente Yaya Jammeh (arrivato al potere con un colpo di Stato nel 1994) ha bollato la Cpi come uno strumento che «persegue e umilia la gente di colore, in particolare gli africani», dimenticando la feroce repressione riservata all’opposizione e la politica di isolazionismo internazionale a cui ha condannato il suo paese. A queste nazioni potrebbero aggiungersi a breve anche Uganda, Namibia, Tanzania, Kenya, tutte pronte ad uscire sulla scia di risentimenti delle oligarchie politiche al potere.

I paesi africani accusano la Cpi di aver preso di mira solo loro: certamente su 10 procedure in corso presso il Tribunale ben 9 riguardano stati di questo continente. I presidenti affermano che la Cpi attua la politica di due pesi e due misure, trasformandosi così in un apparato al servizio del neocolonialismo. Una opinione condivisa dai leaders soprattutto dopo l’arresto ed il procedimento penale contro l’ex presidente ivoriano Laurent Koudou Gbagbo, catturato dalle forze speciali francesi su mandato Onu.

La Cpi si difende: la preponderanza di casi africani è dovuta in gran parte alle procedure di ricorsi alla Corte. Inoltre – affermano i giudici – per una classe dirigente che si sente perseguitata ci sono le numerosissime vittime di crimini contro l’umanità commessi in Africa che vogliono giustizia dall’unica corte che gliela può garantire, nonostante le lentezze, scarsi mezzi e pochi soldi a disposizione. Da L’Aja fanno notare che ci sono 10 inchieste in dirittura d’arrivo su conflitti non africani in Colombia, Palestina, Ucraina, Afghanistan.

In quest’ultimo caso si ipotizza l’eventualità di incriminare cittadini statunitensi per crimini di guerra, anche se gli Usa (insieme alla Cina) non hanno aderito alla Cpi. I segnali del malessere e dell’insofferenza africana sono antichi. Nell’ottobre 2013, nel corso di una riunione straordinaria dell’Unione africana ad Addis Abeba, fu chiesto di sottrarre al giudizio del Tribunale oltre al presidente Omar Al-Bashir anche il presidente kenyano Uhuru Kenyatta ed il suo vice William Ruto, ambedue accusati di essere gli organizzatori delle violenze post elettorali del 2007. Per Kenyatta si arrivò ad un non luogo a procedere nel 2014 per mancanza di prove, anche se fu sottolineata la mancata collaborazione da parte del governo di Nairobi.

Va ricordato che dei 124 stati che aderirono alla Statuto di Roma ben 34 sono africani. Amnesty international denuncia i tentativi del Consiglio di sicurezza di politicizzare l’azione della Corte, denunciando alcune situazioni e minimizzando su altre. All’opposto va anche evidenziato come alcuni paesi africani abbiano tentato la strumentalizzazione politica e diplomatica della Cpi per asservirla ai propri scopi e numerosi capi di Stato abbiano a lungo trovato nella cooperazione con la Cpi uno strumento per controllare l’opposizione. Ora il tempo è scaduto: bisogna decidere il futuro di uno strumento oggi efficace a fasi alterne.

(pubblicato su Confronti di dicembre 2016)

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