Giorgio Merlo e Gianfranco Morgando
“La sinistra sociale. Storia, testimonianze, eredità”
Editore Studium, 2016
248 pagine, 16,50 euro
di Roberto Bertoni
La presentazione del bel saggio di Giorgio Merlo e Gianfranco Morgando, intitolato La sinistra sociale. Storia, testimonianze, eredità e dedicato alla figura di Carlo Donat-Cattin e alla sua piccola ma combattiva corrente Forze Nuove, ci dà modo di affrontare un tema troppo spesso ignorato dalle narrazioni ufficiali della politica contemporanea, ossia l’importanza delle radici e del percorso storico di una delle componenti essenziali della democrazia italiana: quel cattolicesimo sociale che si basa, sostanzialmente, sull’umanesimo cristiano di Jacques Maritain e si sostanzia nelle proposte, negli ideali e nella visione del mondo elaborata da alcuni storici protagonisti dell’epopea democristiana presso l’abbazia di Camaldoli, sullo sfondo delle drammatiche vicende che caratterizzarono il luglio del ’43.
L’incontro, che ha visto la partecipazione di un nutrito gruppo di intellettuali e di protagonisti della vita politica italiana, si è svolto mercoledì 18 gennaio all’Istituto don Sturzo, snodandosi attraverso un lungo dibattito fra Giorgio Tonini, Franco Marini, Fabrizio Cicchitto ed Emanuele Macaluso, abbracciando così le varie culture repubblicane che hanno segnato il Novecento e proiettando lo sguardo verso il futuro, ovviamente oltre l’orizzonte, ristretto e deprimente, di una politica mai come in questo momento malata di “presentismo” e pregiudizi reciproci. Basta scorrere le pagine dell’opera di Merlo e Morgando per rendersi, invece, conto di come quest’intellettuale piemontese, scomparso troppo presto nel marzo del ’91, sia riuscito, sia pur da una posizione minoritaria e spesso in contrasto con la linea prevalente all’interno del proprio partito, a far vivere nella Dc lo spirito di Camaldoli e l’anima sociale propria dei morotei: la stessa di Tina Anselmi, di Piersanti Mattarella e, ovviamente, dell’attuale capo dello Stato.
Possedeva, infatti, quella passione civile, quel fervore umano, quell’etica della responsabilità e quel rispetto per il prossimo e per la politica nel suo insieme che gli consentirono di elaborare, in anni non facili, un pensiero complesso e articolato, in grado di vivere da protagonista in una compagine ormai sfiancata dal correntismo esasperante e dai fenomeni di malcostume che, insieme al passaggio d’epoca seguito al crollo del Muro di Berlino, ne hanno provocato la scomparsa, in un’orgia di rancori, rabbie inespresse, divisioni e spinte disgregative che ha privato il nostro assetto istituzionale di una delle sue culture basilari, dopo che l’altra cultura cardine, quella comunista, aveva scelto il suicidio, sentendosi scioccamente sconfitta dalla storia e preferendo la comodità dei luoghi comuni, delle frasi fatte e dei cedimenti “terzaviisti” alla fatica dei «pensieri lunghi» berlingueriani e alla bellezza di quel cercare inquieto, costante e capace di produrre analisi e proposte di un certo spessore che contraddistingueva, al contrario, l’ingraismo.
Di quanto sia stato importante Carlo Donat-Cattin ce ne siamo accorti solo dopo, quando se n’era andato, quando il sentiero che aveva tracciato si era tristemente inaridito e molti avevano smesso di percorrerlo, quando della sinistra sociale, del cattolicesimo democratico e della passione autentica e tenace dei dossettiani e dei morotei era rimasto unicamente il ricordo e qualche sparuta testimonianza, buona più per convegni e seminari di alto livello che per riorganizzare una formazione politica in grado di dare un senso a quelle idee e a quel modo di intendere la militanza e la vita stessa; e i primi a rendersi conto di quanto avessero bisogno di quel pungolo costante e ricco di coraggio furono proprio gli avversari. Donat-Cattin, difatti, aveva intuito per tempo i rischi connessi alla sparizione di un rapporto sanamente conflittuale e saggiamente dialettico fra due culture entrambe degne di rispetto, le quali avrebbero potuto continuare ad esistere e ad arricchire la politica italiana solo correndo in parallelo, confrontandosi e ragionando insieme, senza fusioni a freddo di apparati più o meno famelici che hanno finito col fare la fortuna soltanto di coloro che interpretano la politica alla stregua di un mestiere, pronti a cambiare bandiera, corrente, padrone e schieramento a seconda di dove soffia il vento.
Donat-Cattin lo disse per tempo: aveva capito, infatti, anche prima dello stesso Berlinguer e senz’altro meglio di Moro, che un incontro ravvicinato fra Pci e Dc avrebbe agevolato soltanto le frange conservatrici di entrambi i partiti, ben felici di spartirsi una cospicua fetta di potere e di emarginare ogni forma di pensiero critico. Aveva intravisto, in pratica, una nuova palude, assai più melmosa di quella di una Dc ormai a fine corsa, mettendo in guardia, inascoltato, i tanti dirigenti che, talvolta anche in buona fede, stavano correndo entusiasti verso la propria rovina, illudendosi di poter costruire un pensiero plurale e ponendo, ahinoi, le basi per il pensiero unico, ossia per la scomparsa di qualsiasi pensiero e, di conseguenza, per la perdita di autonomia della politica dai dogmi economici del liberismo selvaggio, di cui solo oggi stiamo iniziando a comprendere, e a denunciare timidamente, la barbarie.
Fu, Donat-Cattin, un uomo di Stato e di partito, fiero della sua irriverenza e della sua democristianità atipica, portata più a parlar chiaro che a smussare gli angoli e ad annegare i contrasti, compresi quelli più evidenti, in un mare di ipocrisia e di concordia di facciata. Altri due soggetti dai tratti simili, nella Dc, erano Tina Anselmi e Beniamino Andreatta, i quali, a loro volta, pagarono a caro prezzo questa pervicace tensione morale che impediva loro di accettare l’inaccettabile e di sposare le mode e le tendenze di una stagione egoista, preferendo la sobrietà, la compostezza e la determinazione dei costruttori di pensiero e di identità.
Nell’opera di Merlo e Morgando la figura di Donat-Cattin ci viene restituita in un affresco vivido, attraverso le testimonianze e i racconti di chi lo ha conosciuto da vicino, di chi ne è stato amico e di chi ne è stato rispettosamente avversario. E l’ammirazione sincera che traspare dalle riflessioni di tutti gli interlocutori di questo saggio collettivo ci fa capire con chiarezza quanto servirebbe, oggi, una figura così, temo irripetibile o, comunque, destinata ad essere ancor meno capita e apprezzata di un tempo, in questa fase storica dominata dalla semplificazione eccessiva, dalle esagerazioni, dalla pubblicità ingannevole e da una “non politica” tanto popolare nei salotti televisivi quanto totalmente incapace di venire incontro alle esigenze, ai drammi, alla disperazione ma anche alle ambizioni e alle speranze dei ceti sociali più deboli.