di Alice Corte
200 milioni circa. Sono le donne che hanno subito una mutilazione genitale in tutto il mondo, pratiche quasi sempre volte a privarle del piacere sessuale e che comportano notevoli rischi sul piano della salute, anche nel quotidiano. E proprio oggi, 30 gennaio 2017, inizia a Roma la conferenza “BanFGM”, che si concluderà il primo febbraio e che a dieci anni dall’inizio della campagna contro le Mutilazioni genitali femminili (Mgf) si occuperà di compilarne l’inventario e divulgarne i risultati, riesaminarne le principali tappe politiche fondamentali ed evidenziarne la strategia di coinvolgimento degli attivisti, parlamentari e ministri a livello locale, nazionale e internazionale allargando la prospettiva oltre l’Africa.
Proprio in vista di tale conferenza il 26 gennaio una attivista kenyota e ambasciatrice Amref, Nice Nailantei Leng’erte, ha raccontato la sua storia e il suo lavoro a Roma, presso l’Università degli Studi Link Campus University, ad un partecipato incontro promosso dal Rotary Club Roma Polis.
Quella che Nice ha raccontato è stata prima di tutto la sua esperienza, di quando a nove anni fuggì al rituale della mutilazione genitale e decise di studiare. Crescendo, la lotta contro le pratiche invasive per il corpo delle donne, ma anche contro la loro esclusione dal sistema scolastico, è diventata una delle sue priorità e la giovane donna ha lavorato ben tre anni solo per essere ascoltata all’interno della sua comunità, in cui ora ha un ruolo di leadership che le permette, prima di tutto, di ascoltare le opinioni altrui e cercare di trovare soluzioni.
L’abbiamo intervistata per capire a che punto sia il lavoro contro le mutilazioni genitali femminili, ormai riconosciute dall’Onu come «un abuso irreversibile e irreparabile» cui è fatto divieto globale in tutte le sue forme, ma ancora ampiamente praticate in numerose comunità.
Quali pensa siano i passaggi da fare per cambiare i riti di passaggio che prevedono la mutilazione delle bambine?
Penso che sia importante cercare di comunicare quali siano gli effetti negativi delle mutilazioni genitali femminili all’interno delle comunità. Devono sapere che c’è bisogno di valorizzare le donne e le ragazze, e che l’educazione non è una cosa solo da maschi. Devono sapere che abbiamo bisogno che le ragazze vadano a scuola. Credo che per trovare nuovi riti di passaggio la comunità si debba sedere assieme e discutere cos’è meglio per le ragazze, per i ragazzi, e penso che la soluzione migliore sia l’educazione, perché senza educazione non ci sarà nessun cambiamento, un cambiamento che deve interessare tutta la comunità. È positivo il fatto che riusciamo a sederci tutti assieme e parlare. E quando ci si siede assieme si conviene sul fatto che l’educazione è la soluzione migliore per i nostri giovani e le nostre giovani.
Cosa è cambiato nei dieci anni di campagna?
La campagna è iniziata e per esempio in Kenya c’è una legge proibisce le mutilazioni genitali femminili. Ora che abbiamo una legge siamo protette, persone come me e come altre, quindi ora stiamo cercando di educare le comunità. Anche le ragazze sanno dove scappare. Quindi la campagna ha avuto degli effetti, ma ora abbiamo bisogno di prendere parola nelle comunità, perché ci sono persone che anche se concordano sugli effetti negativi delle mutilazioni, se ne vanno, non tornano nelle comunità cercando di capire. Perché il problema è culturale ed è da lì che è necessario partire.
Che succede quando le persone lasciano l’Africa? Continuano a praticare le Mgf?
La questione delle Mutilazioni genitali femminili non è solo una questione africana, sta diventando un problema globale, le persone vengono in Italia e vengono coi propri figli e figlie; e quando arrivano qui vogliono praticare le mutilazioni. Quindi le persone devono essere capaci di dare loro informazioni, vanno chiamati esperti anche africani per comunicare con chi arriva, poiché penso che persino qui sia diventato un problema.
E proprio in tal senso va il progetto europeo “After”, avviato in cinque paesi tra cui l’Italia, che intende analizzare e contrastare il fenomeno delle mutilazioni in Europa. Le mutilazioni riguardano 500mila donne che vivono già sul territorio europeo e potrebbe interessare ogni anno ben 18mila bambine. In un’iniziativa il 28 gennaio presso la Casa delle Donne Lucha y Siesta di Roma si è esposto il problema, partendo soprattutto dalla realtà romana (in cui manca anche semplicemente l’assistenza sanitaria per le donne che hanno subito mutilazioni, cui non sono preparati ginecologi e ostetrici), ma sottolineando anche la difficoltà a farla riconoscere sul piano legale come motivo di ottenimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari o per chi faccia richiesta di asilo.
La strada per un reale contrasto alla pratica delle mutilazioni è dunque lunga, ma in Africa come in Europa parte da un dato: conoscere e far conoscere il problema è il primo passo per combatterlo.