di David Gabrielli
Chi violenta un minore non “offende” solo la castità (come dice il catechismo) ma compie un vero e proprio “delitto”.
La questione della pedofilia del clero cattolico rimbalza, da qualche tempo, sulle prime pagine dei giornali, ed è tema di libri di successo. Essa – la violenza sessuale su bambini e adolescenti (seppure per questi si dovrebbe parlare di efebofilia) – non è affatto una “esclusiva” del clero; avviene soprattutto in famiglia, o col “turismo sessuale” in paesi esotici, praticata da gente che svolge le professioni più variegate e, di norma, è coperta da un’insuperabile omertà. Tristissimo fenomeno sul quale di solito si tace.
Venendo poi al clero, la pedofilia non è “caratteristica” di quello cattolico, perché tocca egualmente ecclesiastici di altre confessioni. In ambito cattolico, infine, la quantificazione del fenomeno varia da paese a paese. Grosso modo, si può prendere come punto di riferimento quanto nel 2009 affermava il cardinale brasiliano Cláudio Hummes, allora prefetto della Congregazione per il clero: «In alcune diocesi la pedofilia coinvolge il 4% del clero». Dunque, una piccola minoranza. Sarebbe perciò sommamente ingiusto considerare la pedofilia una peste che infetta l’intero clero. Ma, quand’anche si trattasse di un solo caso, sarebbe tremendo per chi, per missione, annunzia l’Evangelo.
Da qui il clamore suscitato da casi come quelli della diocesi di Boston, rigorosamente descritti dal film Spotlight: per l’opinione pubblica cattolica statunitense, che in generale ha un’alta stima del prete, è stato uno shock apprendere che un sacerdote (parroco o educatore), al quale dai genitori con fiducia totale era stato affidato un ragazzo/a, ha compiuto su questi/a violenza sessuale. Il cardinale arcivescovo, Bernard F. Law (dimessosi nel 2002), era a conoscenza del “vizietto” di alcuni preti pedofili ma, invece di denunciarli, li aveva spostati da una parrocchia all’altra, ove essi avevano seguitato a violentare adolescenti. E la Santa Sede, alla quale infine dalle diocesi arrivavano le segnalazioni? Fin quasi alla fine del secolo scorso, i casi di preti pedofili erano trattati con riserbo massimo: l’urgenza, però, non era quella di difendere le vittime, ma di coprire lo scandalo perché il “buon nome” della Chiesa non fosse macchiato.
Tuttavia, l’eco suscitata, soprattutto in Nordamerica, da alcuni casi, e dai risarcimenti milionari che alcune diocesi hanno dovuto sborsare per cause portate in tribunale, ha costretto il Vaticano a cambiar rotta: e da Giovanni Paolo II in poi la questione è stata affrontata di petto, sia pure non senza ritardi e contraddizioni. «Tolleranza zero per i preti pedofili»: questo, ora, il principio che guida l’azione vaticana, per estirpare un comportamento malefico che Francesco ha definito «mostruosità assoluta e orrendo peccato».
E, per il passato, un colpo di spugna? Così è accaduto in molti paesi; ma vi sono eccezioni. Le Conferenze episcopali del Canada (e, qui, anche la Chiesa anglicana), dell’Irlanda, della Francia e della Svizzera hanno fatto un pubblico “mea culpa”, seppure non sempre con adeguata franchezza. I vescovi d’Oltralpe hanno costituito una “Commissione nazionale indipendente” per occuparsi della pedofilia del clero, composta di magistrati, psicologi e familiari delle vittime. E, in Svizzera, il 5 dicembre nella basilica di Valère (Sion) i vescovi hanno organizzato una giornata di penitenza in espiazione «degli abusi sessuali [dei preti], del silenzio e della mancanza di aiuto alle vittime»; e, per indennizzare i reati “prescritti”, hanno istituito un fondo di cinquecentomila franchi.
E in Italia? Qui la Conferenza episcopale sembra partire dal presupposto che «da noi non è come altrove», ipotesi minimalista smentita da molti fatti. Per smuovere tale imbarazzante status quo il movimento riformista cattolico “Noi siamo Chiesa” ha suggerito ai vescovi: 1) l’istituzione di una Commissione come quella pensata dai francesi, e una “giornata nazionale di penitenza”; 2) una riflessione autocritica sul passato, e il riconoscimento che sono insufficienti le “Linee guida” stabilite dalla Cei nel 2012 e ’14; 3) l’impegno di denunciare alla magistratura i fatti sicuri.
Stella polare per la Cei non può essere semplicemente il Catechismo cattolico, che definisce lo “stupro” su minori una “offesa contro la castità” (n. 2356); deve essere il Codice italiano, per il quale la violenza sessuale su minori è un “delitto” contro la persona.
(pubblicato su Confronti di marzo 2017)