di Giuliano Ligabue
Un ricordo di Simonetta Salacone scritto da un nostro redattore, che ha condiviso con lei una lunghissima e profonda amicizia. Impegnata per una vita sui temi della scuola, fino al 2010 Salacone era stata la direttrice scolastica delle elementari “Iqbal Masih” di Roma. Più volte ha scritto per Confronti articoli belli e appassionati sui mali della scuola italiana.
Simonetta se n’è andata, in poche settimane, in un letto d’ospedale: era la notte del 26 gennaio. Quelli che le stavano intorno, in quei giorni, la sentivano ripetere: «ecco i miei cari!». Così era sempre vissuta: “tra” la gente, mai in solitudine, e i «suoi cari» – quasi prima dei parenti e degli amici – erano i bambini accolti nella sua scuola, i recuperati tra gli scarti del Prenestino, le maestre-colleghe nell’educazione, i compagni di partito e tutti quelli incontrati sulla strada del riscatto degli ultimi.
Il pomeriggio del sabato 28 gennaio, la chiesa di S. Francesca Cabrini non è stata in grado di accogliere tutti coloro che volevano ritrovarsi accanto a lei, in un ultimo saluto: amici, estimatori, la scuola di ieri e di oggi di Roma; fuori, ad attenderla, bandiere sindacali e rosse.
Quale sia stata, poi, l’ampiezza e la profondità del suo impegno culturale, professionale, sociale e politico, i mezzi tradizionali di informazione e i social – tanti – ne hanno dato riconoscimento: il coraggio intellettuale, le proposte educative, l’innovazione didattica, l’inclusione e l’integrazione. Eppure chi l’ha conosciuta da vicino, l’ha vista in azione o seguita nel suo lungo cammino, ha custodito “dentro” ben più cose da ricordare e dire: come la forte eticità nelle relazioni interpersonali, nelle scelte professionali, nei rapporti con le istituzioni; e la tensione spirituale che trasferiva nelle letture personali e nelle conversazioni più intime, affiorando fin dentro le sue acute analisi dei fatti e delle persone.
La tensione spirituale di Simonetta ha trascinato con sé una sua personale, e forse faticosa, dimensione religiosa. Simonetta non ha mai pensato di dirsi credente, come mai si è dichiarata non credente: con ogni probabilità la riteneva una distinzione incompatibile con la propria intelligenza. Nel merito, le poteva capitare di dire, semplicemente, questa frase: «Non ci riesco». Non sono certamente serviti i 13 anni di scuola cattolica a farle scoprire la trascendenza, mentre la incuriosirono don Milani, e i preti come lui – Primo Mazzolari, David Maria Turoldo, Giovanni Franzoni, Roberto Sardelli – nei quali scopriva che la fede non metteva in discussione un impegno culturale, politico, laicamente identico al suo. La “Lettera a una professoressa” era la sua Bibbia.
Due anni fa, questo colloquio: «Simonetta, perché domenica non vieni in San Pietro in Vincoli con Giulio [il marito non autosufficiente, religioso e praticante]? Giulio sarà contento e tu avresti l’occasione di ascoltare le riflessioni di un prete “pensante”, don Giuseppe. Il culto tienilo pure da parte».
Da allora, tutte le domeniche possibili la Simonetta-pensante era lì: si riconosceva in quel risuonare parole di gratuità, di perdono, di solidarietà e integrazione, di superamento della Legge, di nuova Giustizia. E sentire che tutto partiva dal Vangelo, la “buona notizia” per tutti. Ne usciva, a volte, commentando: «Bello, ma è difficile. Faccio fatica».
Poi, due mesi fa, la violenza della malattia che la strappa a se stessa, a noi, a tutti.
Cinque giorni prima della morte, il 21 gennaio, risponde a un messaggio di un amico dando notizie di sé e di Giulio, ancora con il cellulare in mano; con una conclusione inaspettata: «Pregate per me e grazie». Era certamente una forma di rispetto verso il sentire di chi aveva di fronte; come sempre aveva cercato, nella vita, di non frenare l’altro sul suo personale modo di pensare.
Ma ancora il giorno dopo, sempre al cellulare e con voce ormai sfinita, a chi le stava dicendo «Simonetta, preghiamo per te», rispondeva: «Grazie. Ne ho bisogno».
Alla fine, nella morsa impietosa dell’agonia, in un attimo di lucidità, rispondeva – ad una carezza accompagnata da un «Simonetta, noi preghiamo ancora per te!» – con un: «Ne ho bisogno». Non più il grazie, solo il bisogno.
Ora Simonetta non chiede più a nessuno di pregare per lei. Allora siamo noi, cercatori ancora itineranti, a fare nostre le parole che don Giuseppe le ha rivolto dall’altare, personalizzando il discorso del monte, dal Vangelo di Matteo:
«Beate te, Simonetta, perché hai scelto nella tua vita, professionalmente, un verbo che oggi noi leggiamo continuamente nelle parole di papa Francesco: il verbo integrare. Hai scelto il verbo integrare. Su questo verbo hai fondato la tua vita di ascolto, di donazione, di condivisione;
Beate te, che hai compreso che ci sono tanti muri da abbattere e tanti ponti da costruire, e hai cercato di farlo e – pur provando paura di non riuscirci, pur trovando qualche volta dentro di te il silenzio, la solitudine che ti faceva sentire e chiederti “Cosa sto facendo? dove sto andando? chi sarà da questa parte?” – hai imboccato la strada della solidarietà e della condivisione: ti sei guardata attorno e lì hai trovato lo “scarto”, quelli che la società della cosiddetta “gente perbene” mette da parte perché “non sono all’altezza”, “non devono riuscire”; per la loro condizione, per la loro nascita, per la loro religione, per la loro cultura, per l’assenza di tutto quello che chiederebbe di essere al proprio posto, devono stare al posto in cui li mettiamo.
E tu sei andata oltre. Non hai disobbedito alla Legge ma hai capito che si può andare oltre la Legge, e la parola che sta dentro – quella che guida la coscienza – è molto più forte di qualunque norma: che la norma è legittima, che la norma ha bisogno di essere espressa , di essere codificata ma non può permettersi di dire l’ultima parola, perché l’ultima parola è quella che nasce “dentro” e porta Dio nella coscienza. E tu hai seguito la coscienza: nella tua professione ti sei guardata attorno e hai amato: hai visto le facce dei bambini che chiedevano di essere accolti, ascoltati, istruiti e hai capito che proprio questo riuscire ad abbattere qualunque muro – quelli che vengono costruiti in modo che siano tanto saldi che nessuno potrebbe distruggerli – tu hai capito che si potevano aggirare, i muri, che si poteva passare quasi attraverso dei corridoi sotterranei, che si poteva arrivare non soltanto alle facce ma ai cuori, alle intelligenze, alle vite intere. E hai detto “sì” a loro e lì hai donato la vita. Hai capito che o la vita è donazione o è una forma di egoismo assoluto, o la vita ha il sapore della gratuità oppure vuol dire tenersela stretta con una grande paura che ti venga portata via.
E non hai avuto paura di non essere capita perché certamente nella tua strada, guardandoti attorno, parlando con quelli che facevano la strada come te, non avrai trovato sempre grandi consensi, grandi sì, grandi accoglienze: avrai trovato gente che dubitava che la sicurezza con cui tu andavi avanti aveva trovato anche persone “in alto”, di quelli che potrebbero dire l’ultima parola, di quelli che potrebbero – forse dovrebbero, per la loro autorità – recidere l’ordito che si sta portando avanti. E tu hai avuto il coraggio della sfida, che non è mai stata una sfida “contro”, perché non hai mai lottato contro nessuno: hai lottato contro l’ingiustizia, hai lottato contro l’esclusione, hai lottato contro tutte quelle forme che dicevano: “No, per questi non c’è posto!” E tu hai detto : “Sì, per loro c’è posto, per un motivo soltanto: perché sono uomini e donne”».