di Donato Di Sanzo (mediatore culturale e dottore di ricerca in Storia contemporanea presso l’Università di Salerno)
La Brexit sembra più lontana del previsto. Lo scorso 23 gennaio, infatti, la Corte suprema britannica ha stabilito che la notifica dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, necessaria per avviare le trattative finalizzate all’uscita di uno stato membro dall’Unione europea, dovrà avvenire attraverso una legge del Parlamento di Londra e non mediante un più rapido provvedimento del governo. La sentenza impone tempi più lunghi alle procedure per l’effettiva realizzazione della Brexit e rappresenta una battuta d’arresto per le strategie del gabinetto della premier britannica Theresa May, che aveva fatto appello alla Suprema corte richiedendo di attivare l’articolo 50 d’autorità, nel rispetto del referendum del 23 giugno 2016, quando il 52% degli elettori si era espresso per il “Leave”.
Il verdetto della Corte suprema ha, inevitabilmente, scompaginato il dibattito intorno alla Brexit e alle trattative tra Londra e Bruxelles. A livello istituzionale, i giudici hanno riaffermato l’importanza della storica tradizione parlamentare britannica, ristabilendo la centralità di Westminster nelle decisioni fondamentali. In termini politici, invece, la sostanziale sconfitta di Theresa May sul piano strategico ha restituito voce ai sostenitori del “Remain” e disseminato di nuovi ostacoli la “road map” tracciata dal governo conservatore verso l’effettiva uscita del Regno Unito dalla Ue. L’opposizione laburista aveva presentato emendamenti alla legge di notifica dell’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona. Il leader del Labour Jeremy Corbyn aveva fatto sapere che, pur nel rispetto della volontà elettorale, avrebbe richiesto specifiche garanzie per i lavoratori stranieri presenti sul territorio britannico e, soprattutto, il pieno accesso, senza tariffe, al mercato unico, di cui la May ha invece annunciato che il Regno Unito non farà più parte. Ma l’8 febbraio la Camera dei Comuni ha approvato la legge senza modifiche e ora il testo è passato alla Camera dei Lords.
I maggiori ostacoli ai disegni del governo di Londra, tuttavia, vengono dall’esterno e, nello specifico, da Scozia e Irlanda del Nord, dove, in occasione del referendum dello scorso giugno, la maggioranza degli elettori si era espressa per rimanere nell’Unione europea. La premier scozzese Nicola Sturgeon, nonostante la Corte suprema abbia chiarito che i Parlamenti di Edimburgo e Belfast non possano esercitare alcun potere di veto sulla Brexit, ha proposto di indire una nuova consultazione popolare sull’indipendenza della Scozia dal Regno Unito, dopo che un analogo referendum aveva registrato una vittoria degli unionisti nel 2014.
Il fronte indipendentista sembra ingrossarsi sempre di più e molti dei parlamentari scozzesi a Westminster hanno già annunciato ostruzionismo nel corso del confronto nella camera bassa. Anche più delicata si presenta la situazione in Irlanda del Nord, dove il dibattito sulla Brexit rischia di intrecciarsi, in maniera infausta, con le discussioni sulla tenuta del Good Friday Agreement del 1998, che aveva chiuso la trentennale stagione dei Troubles e contribuito a chiudere il conflitto tra cattolici e protestanti attraverso la condivisione dei poteri tra forze politiche di diversa tradizione. Lo scorso 11 gennaio, il vice primo ministro nordirlandese Martin McGuinness, ex comandante dell’Ira e massimo rappresentante dei repubblicani del Sinn Féin nel governo di Belfast, ha rassegnato le sue dimissioni in seguito a uno scandalo sull’utilizzo di fondi pubblici per il finanziamento di imprese private, che ha coinvolto la premier protestante Arlen Foster, leader del Democratic Unionist Party. La crisi politica ha portato a una tornata elettorale anticipata, che il 3 marzo prossimo eleggerà il nuovo parlamento dell’Ulster in un clima di profonda e aspra contrapposizione, dettata anche dalle recenti dichiarazioni del presidente e storico leader del Sinn Féin Gerry Adams, secondo cui l’effettiva applicazione della Brexit comporterà la revisione inevitabile degli accordi di pace del 1998.
In uno scenario simile, le spinte indipendentiste scozzesi e la minaccia di un nuovo scoppio del conflitto in Irlanda del Nord potrebbero rappresentare uno dei fattori di maggiore instabilità nel contesto politico d’oltremanica, in grado di compromettere non solo le procedure per l’applicazione della Brexit, ma anche la tenuta della sovranità e per l’applicazione britannica sul Regno Unito.
(pubblicato su Confronti di marzo 2017)