di Enzo Nucci (corrispondente della Rai per l’Africa sub-sahariana)
In Sudafrica il partito che fu di Nelson Mandela è in grave crisi: scandali, corruzione, emorragia di voti e una lotta per la successione a Jacob Zuma.
Anche se piccola (ma non meno tagliente) registriamo l’ultima tegola caduta sulla testa dei dirigenti dell’African National Congress (Anc), il partito al potere in Sudafrica dal 1994. Ndileka Mandela, la nipote più anziana di Nelson, non voterà più per il partito simbolo della lotta all’apartheid che condusse Madiba alla presidenza della repubblica. Ndileka, infermiera, lo ha deciso dopo i recenti scandali governativi riguardo la morte di almeno 94 pazienti psichiatrici che le autorità avevano trasferito da un ospedale in strutture paragonate a «campi di concentramento» ed il rischio per 17 milioni di cittadini di non vedersi pagate le prestazioni sociali ad aprile.
Il Sudafrica tornerà alle urne nel 2019 per scegliere il presidente e rinnovare il Parlamento. Nell’agosto del 2016 i primi campanelli d’allarme del malessere e della delusione diffusa sono stati avvertiti nelle elezioni amministrative in cui si sono registrate le prime sconfitte dell’Anc che ha clamorosamente perso il governo di Johannesburg e Pretoria, le principali città del paese. Complessivamente il partito-istituzione ha perso il 14% dei consensi rispetto all’ultima consultazione elettorale. Da mesi all’interno dell’Anc è in corso una lotta furiosa per la successione all’attuale presidente Jacob Zuma (nonché segretario del partito, perché per statuto le cariche coincidono) che non potrà secondo la Costituzione presentarsi per un terzo mandato, dopo un decennio di potere contraddistinto da scandali, corruzione, incompetenza e ruberie. Da alcune inchieste è emerso che una parte delle scelte politiche del presidente in carica sono state addirittura suggerite da dubbi e chiacchierati uomini d’affari, in grado di influenzare il governo fino a decidere la nomina di ministri. Inoltre lo sviluppo economico segna il passo: la Nazione Arcobaleno è stata sorpassata dalla Nigeria, che ora è il paese africano con il Pil più alto. Il livello di disoccupazione è del 30% (con punte del 40% tra i giovani). L’industria estrattiva e mineraria (che occupava milioni di lavoratori non specializzati) si avvia ad un mesto tramonto per la decrescita dell’economia cinese che prima consumava tonnellate di carbone, minerali di ferro e alluminio sudafricano. Anche l’industria manifatturiera e l’agricoltura calano a picco.
Una situazione economica tanto complessa sta generando violente contestazioni. A settembre scorso gli studenti hanno paralizzato gli atenei e si sono scontrati duramente con la polizia per protestare contro il progetto governativo di aumentare le tasse universitarie dell’8%, rincaro superiore all’inflazione attestata al 6%. Le facoltà sono al collasso economico per la mancanza di fondi governativi e questo si riflette sull’offerta didattica. Arresti, feriti, facoltà occupate militarmente dalla polizia non sono stati ancora una volta un buon biglietto di presentazione per un governo che il 16 agosto 2012 ordinò di sparare sui lavoratori di una miniera di platino di una multinazionale inglese in sciopero per chiedere aumenti salariali: nella strage di Marikana persero la vita 34 minatori ed è ricordata come una delle peggiori pagine della recente storia sudafricana, anche perché nella gestione della miniera erano coinvolti personaggi di primo piano dell’Anc.
A febbraio è ritornata la violenza xenofoba ad infiammare le strade, così come avvenne nel 2015 a Durban, dove furono uccisi 6 migranti, e nel 2008 quando nelle sommosse si registrarono 60 morti. Stavolta nel mirino c’erano gli immigrati dallo Zimbabwe, 3 milioni di persone fuggite dalla fame e dalla violenza del regime di Mugabe. La miccia è stata innescata dal ministro degli Interni Malus Gigaba (esponente dell’Anc) che si è scagliato contro gli immigrati africani accusati di rubare il lavoro, contribuire alla insicurezza ed alla criminalità: musica e parole ben note anche in Europa. Il ministro ha annunciato una stretta sui permessi di soggiorno ed una legge per imporre alle ditte l’assunzione di almeno il 60% della mano d’opera locale. Insomma la solita scorciatoia per dimenticare che gran parte del miracolo economico sudafricano degli anni passati è stato costruito proprio sulla fatica degli immigrati sottopagati e maltrattati. Ma tanto è bastato per alimentare la guerra tra poveri facendo scendere in piazza quanti non ce la fanno a tirare avanti.
Il sogno di Mandela rischia di tramontare. Le speranze si appuntano su Alleanza democratica, vecchio partito liberal fondato dai bianchi e da sempre schierato contro l’apartheid, sostenuto dai coloured (ovvero la razza mista), indiani e solo il 6% di neri. Ora a guidarlo è Mmusi Maimane, 36 anni, due lauree, nato a Soweto, lo stesso ghetto dove viveva Mandela. Lo accusano di essere il fantoccio dei bianchi ma sta dando prove di capacità e consapevolezza.
Forse anche l’African National Congress si avvia al capolinea, dopo 25 anni di potere senza opposizione.
(pubblicato su Confronti di aprile 2017)