di Paolo Naso (docente di Scienza politica all’Università Sapienza di Roma)
Superato con difficoltà lo shock iniziale per l’elezione di Donald Trump alla presidenza Usa, facciamo ora i conti con i suoi provvedimenti che dividono l’opinione pubblica statunitense ma anche quella mondiale. L’importanza dell’appoggio degli evangelical e della destra religiosa.
A chi mesi fa mi chiedeva una previsione sulle elezioni americane, rispondevo con troppa sicurezza che Trump non ce l’avrebbe fatta per la semplice ragione che era “troppo”: troppo ricco, troppo conservatore, troppo imprevedibile, troppo esterno al sistema dei partiti e troppo alieno persino nel Grand Old Party repubblicano. Con ogni evidenza mi sbagliavo e oggi “the Donald” vive la sua luna di miele con quella mezza America che l’ha votato. Un’America sfiduciata e sfibrata dalla crisi, impaurita e rabbiosa, che più che “per” Trump ha votato “contro” Hillary Clinton e quello che l’ex first lady ed ex segretario di Stato rappresentava: la continuità del «potere di Washington», l’apparato istituzionale che non ha mai sentito i morsi della crisi, l’egemonia della buona borghesia progressista che non ha mai avuto problemi a mandare i figli al college e a pagare il mutuo di casa.
«Ribaltare le scrivanie di Washington», diceva il vecchio Tex Willer quando si inalberava contro la burocrazia sciupona e inconcludente, e qualcosa del genere devono aver pensato i milioni di farmers, minatori, operai che – senza dirlo né farlo capire – alla fine hanno votato per un magnate arrogante e grossolano ma che è riuscito a parlare come loro e ad apparire come l’uomo della svolta popolare. Sono i paradossi del populismo: un uomo che ha accumulato una fortuna può diventare l’interprete dei sentimenti dell’uomo della strada che fatica ad arrivare a fine mese.
L’altra metà dell’America reagisce incredula e non si capacita di che cosa è successo, come un pugile suonato che non ha visto il poderoso gancio che lo ha steso a terra. «Mi sono ripromessa di non pensare a Trump più di una volta al giorno», mi dice Carol Bechtel, una teologa liberal che insegna in un seminario del Michigan. Si reagisce così, con meccanismi di autodifesa psicologica mentre il trumpismo si trasforma da proclama in provvedimenti di governo: demolizione del sistema sanitario faticosamente costruito da Obama a tutela di chi non ha assicurazioni private e soprattutto dei minori, “deportazione” (sic) degli immigrati irregolari (14 milioni circa, quasi il 5% della popolazione americana), “bando” ai cittadini di sette paesi musulmani (dai quali è però esclusa l’Arabia Saudita), costruzione del “muro” lungo il confine con il Messico e tasse sulle importazioni dal vicino latinoamericano, abolizione dell’aborto, limitazione dei diritti delle coppie dello stesso sesso. E persino qualche concessione alla tortura.
Ogni giorno si aggiungono nuovi dossier. Come quello affidato al segretario per l’Educazione Betsy Devos – pia calvinista di origine olandese, orgogliosa dei suoi anni nelle scuole private protestanti e al Calvin College di Grand Rapids (Michigan) – impegnata in un piano per il ridimensionamento della scuola pubblica a tutto vantaggio di quelle private. La sua idea è molto semplice: liberare fondi federali per finanziare un Sistema dell’istruzione che «garantisca a tutti i genitori, prescindendo dal loro codice di avviamento postale [e cioè dal censo del quartiere in cui vivono, ndr], l’opportunità di scegliere la migliore proposta educativa per i loro figli, in modo che tutti gli studenti possano avere le migliori opportunità di valorizzare il potenziale ricevuto da Dio». Insomma meno scuole di Stato e più voucher per istituti privati e homeschooling, questa americanissima tendenza alla “scuola fai da te” sul tavolo di cucina, sotto lo sguardo attento della mamma che mentre cucina frittelle e bacon educa i figli al far di conto ma anche alle virtù morali e religiose del buon cristiano americano. Trump guarda e benedice. Lo fa a modo suo, con i suoi riferimenti culturali che non sono né Jean Jacques Rousseau né Maria Montessori, ma il puro e semplice “mercato”: “L’assunto è che la competizione tra scuole è sempre vantaggiosa – aveva dichiarato a settembre in campagna elettorale. – Il debole va fuori e il forte si rafforza. È una cosa fantastica”. Terminator e Flavio Briatore – mito il primo, amico di Trump il secondo – non l’ avrebbero detto meglio.
Sulla base di queste premesse, non stupisce che gli evangelical e la Destra religiosa vadano in visibilio per il loro uomo alla Casa Bianca che si reinterpreta come credente praticante; peccatore, certo, ma lo siamo tutti e per tutti c’è una speranza di grazia e redenzione. «Io sono orgoglioso di essere cristiano – aveva avvertito in campagna elettorale – e come presidente non permetterò alla nostra religione di essere continuamente attaccata e indebolita, proprio come sta avvenendo ora, con l’attuale presidente Usa».
Ed infatti un altro dossier che The Donald intende aprire è quello della «separazione tra lo Stato e le comunità religiose». Tra di esse ci deve essere “un muro”, scriveva il vecchio Jefferson nel tentativo di creare un modello unico e originale di relazioni tra il sacro della fede e il profano della politico, distante e diverso dai modelli confessionali o cesaropapisti della Vecchia Europa.
Un “muro di separazione” per cui negli Stati Uniti non c’è un Concordato e nessun altro strumento di regolazione dei rapporti tra lo Stato e le religioni ma tutta la materia viene regolamentata da un semplice emendamento costituzionale per cui il Congresso si impegna a non riconoscere condizioni di favore a nessuna comunità di fede e, al tempo stesso, a non limitare in alcun modo il libero esercizio di ogni culto. Risultato: gli Stati Uniti sono un paese “laico” ma al tempo stesso “pluralista” come nessun altro perché, proprio sotto l’ombrello del Primo emendamento, hanno potuto nascere e crescere centinaia di culti: presbiteriani, battisti, quaccheri, mennoniti e poi ebrei, testimoni di Geova, gruppi neoinduisti e neobuddhisti…
Tutto questo sta nell’autobiografia dell’America e nella sua retorica pubblica: il museo di Ellis Island a New York dedica una stanza a ciò che negli anni della «grande emigrazione» all’inizio del secolo scorso gli immigrati portavano nelle proprie valigie: santini cattolici, menorah ebraiche, Bibbie protestanti di ogni tipo, statue del Buddha, copie del Corano. Il pluralismo americano è religioso, oltre che culturale ed etnico.
Lo dice con forza Jim Winkler, segretario del Consiglio nazionale delle chiese degli Stati Uniti, “roccaforte” del pensiero cristiano progressista: «Sta accadendo qualcosa di inimmaginabile. Noi siamo dalla parte di quegli ufficiali di polizia e di quei numerosissimi americani che fanno obiezione al bando contro i musulmani e cercano di muoversi con criteri di giustizia. Alziamo la nostra voce per sostenere le dimostrazioni in corso nelle città e negli aeroporti. Non c’è dubbio che il nostro amore e la nostra preoccupazione per i musulmani è parte integrante della nostra testimonianza nel paese».
È l’antitesi del Trump pensiero. La sua idea di «America di nuovo grande» coincide con una nazione “cristiana”, al massimo giudaico cristiana, che concede condizioni di favore alle tradizione religiosa che l’ha ispirata e guidata. Tutto questo, però, ha bisogno di sostegno anche dalla base. Nasce da qui l’impegno a rimuovere l’emendamento Johnson che negli anni ’50 stabilì che le comunità religiose che in quanto tali godevano di alcuni vantaggi fiscali non potevano più adottare posizioni a sostegno di un candidato politico. Da allora ogni schieramento elettorale da parte di una comunità religiosa comporta l’annullamento di questo vantaggio e implica che paghi tasse regolari come una compagnia privata. Da decenni la Destra religiosa chiede l’abolizione di questa clausola perché molte chiese evangelical, libere dai lacci dell’emendamento Johnson, sarebbero pronte a trasformarsi in potenti cellule politiche a sostegno di candidati di ispirazione cristiana.
Molte chiese storiche – presbiteriani, episcopaliani (comunione anglicana), metodisti, Chiesa di Cristo Unita (quella in cui si convertì Obama), molti cattolici – guardano incredule a queste proposte che intaccano il Dna costituzionale del Paese. I battisti, la denominazione evangelica più numerosa, sono divisi: tradizionalmente conservatori, anche alcuni dei leader oggi hanno paura di essere inglobati nella Trump religion – «gli evangelical sono gli unici che mi capiscono» – e alcuni dei loro leader rifiutano di appiattirsi sulla Destra religiosa. Così Russell Moore, presidente della Commissione Etica e Libertà religiosa della poderosa Southern Baptist Convention (oltre 16 milioni di aderenti), che dalla campagna elettorale in poi ha deciso di non definirsi più “evangelical”: «Nel corso di quest’anno – ha scritto – la parola ha perso ogni significato e per molti aspetti oggi sovverte il Vangelo di Gesù Cristo. Perché ho visto molti evangelical minimizzare il vomito di volgarità nei discorsi della campagna elettorale, il corteggiamento dei suprematisti bianchi, l’adulazione dell’adulterio, l’avvilimento della moralità pubblica e della giustizia attraverso il sostegno all’industria dei casinò e alla pornografia». Sono le parole di un moralista deluso.
Ma gli fanno eco quelle di un battista liberal che anni fa ruppe con la Southern Baptist Convention: «Ciò che mi preoccupa della proposta di abolire l’emendamento Johnson – afferma Bill Leonard, teologo e professore alla Wake Forest University del North Carolina – non riguarda il governo ma la Chiesa. La nostra coscienza e l’Evangelo ci obbligano a rispondere alle ingiustizie della nazione e del mondo. Ma la coscienza cristiana sottomessa ai favori fiscali dello Stato può diluire o svalutare l’Evangelo che diciamo di voler rappresentare».
Spaccata come una mela, l’America riflette su se stessa con acrimonia rabbiosa da una parte e sconcerto dall’altra. Come sempre accade nel paese più religioso dell’Occidente questo scontro ha una dimensione anche religiosa (vedi scheda) e se alcuni evangelical si chiedono come «possa una chiesa proteggere i clandestini», i loro oppositori liberal dichiarano alcune chiese sul confine “santuari” pronti ad accogliere chiunque sia perseguitato. «Anche a costo di essere arrestato», come mi dice Gury, professore e manager. «Forse Trump ci ha fatto bene – commenta John Thomas, già presidente della United Church of Christ – perché ci impone di tornare ad essere cristiani attivi sulla strada».
(pubblicato su Confronti di marzo 2017)