intervista a Livia Turco (a cura di Claudio Paravati)
Esponente del Pd, già ministro per la Solidarietà sociale nei governi di centro-sinistra dal 1996 al 2001 e poi della Salute nel governo Prodi dal 2006 al 2008, oggi Livia Turco presiede la Fondazione “Nilde Iotti”. L’abbiamo intervistata per avere un suo parere sul tema dell’immigrazione.
Partirei dalla legge sull’immigrazione che porta anche il suo nome, la cosiddetta “Turco-Napolitano”. Ad oggi ritiene che quella legge andasse fatta così o cambierebbe qualcosa, se potesse?
Ricordo che fu una scelta precisa. Erano anni in cui nel nostro Paese cominciava l’ostilità nei confronti degli immigrati, avevamo un flusso ininterrotto di persone che venivano dall’Albania. Fare una legge quadro significava andare controcorrente… fu una visione! Ci trovammo d’accordo sull’idea che bisognasse rendere conveniente e praticabile l’immigrazione regolare e che quindi si dovesse puntare tutto sugli accordi bilaterali. Questa era un’idea forte, di cui eravamo convinti tutti, ma in particolare insistevano il presidente del Consiglio Prodi e il ministro dell’Interno Napolitano. E infine che si dovesse avere il necessario rigore. I famosi tre pilastri: rendere conveniente e praticabile l’immigrazione regolare, contrastare quella clandestina e promuovere le politiche di integrazione.
In fondo, in molti direbbero che le parole chiave sono quelle. Cosa contraddistingue quella legge dalle successive?
Per quanto riguarda gli ingressi per lavoro noi facemmo una normativa molto innovativa, che prevedeva un programma triennale per l’immigrazione… che poi non si fece più. Stabilimmo quote di ingresso annuali; quelle oggi le rivedrei, le farei triennali, con un po’ più di elasticità nel mercato del lavoro. E poi introducemmo la figura importantissima dello “sponsor” (individuale o collettivo), consentendo l’ingresso in Italia per ricerca di lavoro.
E sul reato di clandestinità?
Fu abbastanza dolorosa per noi l’istituzione dei Centri di permanenza temporanea (Cpt); però voglio contestare radicalmente chi dice che c’è una continuità con gli attuali Centri di identificazione ed espulsione (Cie). Noi prevedevamo le espulsioni per via amministrativa; l’espulsione a mezzo della forza pubblica solo in casi di pericolosità, e il trattenimento ai fini dell’identificazione per un periodo di venti, massimo trenta giorni. La legge Bossi-Fini ha introdotto come regola l’espulsione con immediato accompagnamento alla frontiera. L’ulteriore aggravio dell’introduzione del reato dell’immigrazione clandestina – che non serve a niente ed è soltanto di impaccio – e la costituzione dei Cie, il cui trattenimento è fino a 180 giorni (adesso è stato un po’ limitato, ma insomma…), rende le due leggi molto diverse tra loro.
E sulla questione del lavoro?
Oggi può entrare solo chi ha già un lavoro in Italia. Ma se perde il lavoro? Quella stessa persona diventa irregolare e “clandestina”; e succede quindi che nei Cie si trovino non le persone che rifiutano di dare le proprie generalità, ma le persone che da tanti anni sono in Italia e che hanno perduto il lavoro, diventando irregolari. La terza differenza tra le due leggi riguarda la politica di integrazione. Io penso che la nostra legge sull’integrazione fosse molto avanzata. Alcuni punti hanno fatto scuola. Qual era la filosofia della legge? Ci sono diritti che attengono alla dignità della persona in quanto tale e ci sono diritti che devono essere connessi con la residenza. Tra i primi, la salute, i bambini e la tutela della maternità. Noi avevamo previsto che in questi casi, anche se eri clandestino, potevi avere questi diritti. E poi c’era l’importantissimo articolo sulla tratta, l’articolo 18. Il permesso di soggiorno per protezione temporanea dava la possibilità alle donne che uscivano dalla tratta – senza dover denunciare – di avere un permesso di soggiorno. Molte si sono reintegrate nel tessuto sociale grazie a questa norma.
Movimento, integrazione e sicurezza. Soprattutto quest’ultima muove molto la pancia del Paese…
Penso che il problema della paura dei cittadini sia una cosa molto seria e vada presa assolutamente in carico e che la sicurezza sia una parola di sinistra. Potrei parlare del quartiere San Salvario di Torino, che era un quartiere degradato, vicino alla stazione, dove c’erano le ronde contro gli immigrati fatte dai cittadini, anche da gente di sinistra. Lì fu decisivo che l’amministrazione locale capì di dover mettere attorno a un tavolo i cittadini di San Salvario: i commercianti arrabbiati, le scuole, gli immigrati. E da lì è nata una collaborazione bellissima, per cui adesso San Salvario è uno dei quartieri più belli di Torino perché è multietnico. Questa storia per me è paradigmatica del fatto che bisogna saper prendere in carico le paure e che nello stesso tempo bisogna che la carta vincente sia quella della squadra, della costruzione del legame comunitario, dell’interazione, dell’alleanza.
Il “pacchetto” del ministro dell’Interno Minniti da questo punto di vista come lo valuta?
Buone le norme sull’accoglienza diffusa, anche la semplificazione del percorso per l’accettazione della domanda d’asilo. Mi sembra strategica l’accoglienza diffusa, dello Sprar. Mi pare che Minniti abbia dato un segno molto forte sulla questione degli accordi bilaterali, che è la questione decisiva, così come penso che il Governo abbia fatto bene a fare una buona legge sula cooperazione e investire molto sull’Africa. Io alcune norme attribuibili ai sindaci per garantire la sicurezza, che sono più norme simboliche che pratiche, le avrei evitate. C’è il rischio del sindaco-sceriffo, mentre preferisco il sindaco che si prende cura dell’integrazione. Mi sarei fatta un po’ più carico, nel rapporto con la Libia ad esempio, della questione dei diritti umani. Capisco che non è facile, ma la Convenzione di Ginevra deve essere per noi centrale quando lavoriamo con accordi bilaterali con gli altri Paesi.
Il pericolo degli accordi bilaterali è che poi gestiscano loro il problema immigrazione con metodi deprecabili e che non rispettano minimamente i diritti dell’uomo.
Intanto gli accordi non devono essere solo degli accordi di riammissione dei clandestini, ma anche di cooperazione. Quello con l’Albania è l’esempio dell’accordo bilaterale che bisogna fare: un accordo in cui non c’era la riammissione dei clandestini. E bisogna anche garantire i diritti umani fondamentali. Io sento di dover stabilire una profonda differenza tra l’accordo bilaterale (dove per me, come ho detto, il prototipo è quello fatto in Albania) e invece il mero accordo di riammissione, in cui tu ti prendi i clandestini, io ti do dei soldi e tu li gestisci: è un po’ troppo comodo.
Il ruolo dell’Europa in tutto ciò?
La politica europea non può essere solo il controllo delle frontiere: serve una politica europea sui richiedenti asilo; ci deve essere il principio di solidarietà tra i paesi; deve essere cambiato Dublino II e III… soprattutto, bisogna stabilire delle quote di ingresso a livello europeo, non soltanto per i singoli stati.
Noi assistiamo poi a una crisi di tutti i modelli di integrazione, sia l’assimilazionismo sia il multiculturalismo… Le società europee sono società all’insegna della pluralità: come si coniugano identità e pluralità? Questo è il grande tema, la grande emergenza, perché non si risolvono i problemi se non hai persone fortemente integrate. E non risolvi il problema della paura semplicemente dicendo «li mandiamo a casa», oppure al contrario «sono utili economicamente».
Eppure la paura e la volontà di protezione sembrano essere alte.
In questo momento si sente il bisogno di essere protetti nel proprio guscio. Ma la domanda di protezione va raccolta nel modo giusto. Non esiste, e non è di sinistra, dire che ciascuno deve essere protetto e basta. È di sinistra promuovere il diritto alla mobilità delle persone. Il punto è che questo diritto non deve significare caduta nella povertà o perdita di diritti, ma il diritto alla mobilità delle persone è un nuovo diritto che deve essere inscritto a livello europeo: quando mi sposto da un paese all’altro, ci deve essere la cosiddetta “portabilità dei diritti”. Bisogna pensare ad alcune misure europee: un reddito minimo di inclusione sociale a livello europeo, per cui uno può essere disposto a spostarsi in un altro paese, ci deve essere il diritto alla mobilità ma anche il dovere della mobilità: non ci si deve impoverire se si va in un altro paese. “Protezione” oggi significa cominciare a scrivere anche un welfare europeo e non solo istituzioni europee.
Ha seguito il progetto dei corridoi umanitari di valdesi e metodisti con Sant’Egidio?
Sì, è una grande politica che va assolutamente incentivata. È un modo per evitare di dare soldi per i respingimenti, facendosi carico dei diritti umani, dell’arrivo delle persone per vie legali e regolari; attivando inoltre la società civile.
(pubblicato su Confronti di maggio 2017)