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Non tutti i cattolici hanno “perdonato” Lutero

by redazione

di Fulvio Ferrario (professore di Teologia sistematica alla Facoltà valdese di teologia di Roma).

Il libro “Contro Lutero e il falso evangelo” scritto da Marco Vannini è – secondo il teologo Ferrario – un’antologia dei luoghi comuni accumulatisi in cinquecento anni, conditi da un odio viscerale nei confronti del riformatore.

Il titolo sembra riportarci ai libelli del Cinquecento e ci si aspetterebbe, come autore, Johannes Eck, o Ambrogio Catarino. Invece Contro Lutero e il falso evangelo (Lorenzo de’ Medici Press, Firenze, 2017, 174 pagine, 12 euro) esce nel 2017, mentre Lutero è ricordato «non solo dalle chiese cosiddette riformate, ma anche da quella cattolica» (pag. 7); e l’autore è Marco Vannini, il più accreditato studioso italiano dei grandi mistici: una voce importante nel panorama culturale di casa nostra, sia per il numero e la qualità dei testi che egli ha messo a disposizione, traducendoli e curandone l’edizione italiana, sia per le sue suggestive interpretazioni. Che Lutero non fosse esattamente il suo forte, per la verità, era noto dal 1987, quando Vannini aveva pubblicato un’introduzione alle Prefazioni alla Bibbia del riformatore (documenti, in ogni caso, ancora oggi accessibili in italiano solo in quel volume): essenzialmente un attestato della radicale estraneità, incomprensione e antipatia dello studioso nei confronti della lunghezza d’onda spirituale sulla quale vibrano quelle pagine.

Questo libro, tuttavia, costituisce, se così si può dire, un salto di qualità. Vannini è arrabbiato perché Lutero sembra diventato «un campione della fede. Della fede come menzogna, che dichiara un libro “parola di Dio” e su questo appoggia la propria egoità» (pag. 7). Si sarebbe immediatamente tentati di osservare, che, per dirne una, Lutero distingue la Bibbia (più avanti, a pagina 69, Vannini la qualifica come «lunga serie di parole») dalla parola di Dio «come la creatura dal Creatore»: ma affrontare Contro Lutero e il falso evangelo sul piano della discussione storico-teologica avrebbe poco senso. Si tratta di una sorta di antologia dei luoghi comuni accumulatisi in cinquecento anni, conditi da un odio viscerale nei confronti del personaggio.

Qualche esempio, per dare almeno un’idea del livello della trattazione. La chiave ermeneutica per comprendere la parabola di Lutero è presentata così: in base ai ritratti di Cranach riportati da Denifle (il cui celebre studio, del 1904, ispira Vannini), nel 1520 Lutero è «magro, con gli occhi chiari e ardenti di luce interiore»; nel 1526 «è già più grasso e dall’aspetto compiaciuto»; nel 1532, «la pinguedine e la sensualità [costituiscono] la traccia estetica dell’evoluzione religiosa e morale del Riformatore» (pag. 39).

Oltre ai ritratti di Cranach, abbiamo «l’immagine che Lucas Fortnagel ci ha lasciato del suo corpo composto nella morte, obeso tanto da non entrare nella bara»; «solo il rispetto che si deve ai defunti impedisce di esprimere l’impressione disgustosa che quella immagine comunica: precisamente l’opposto della spiritualità» (ibid.). Dopo questo curioso saggio di teologia somatica, si passa al rapporto fede-ragione, citando Maritain (l’elenco delle fonti del Nostro meriterebbe un discorso a parte), il quale afferma che Lutero «ha liberato l’uomo dall’intelligenza, dalla faticosa costrizione al pensiero» (pag. 40). Ma veniamo al sodo: «Lutero ha fatto passare il cristianesimo da esistenza concreta a dottrina» (pag. 99): l’accusa è di Kierkegaard, ma l’autorità del grande pensatore, di per sé, non basta a giustificare una tesi così impegnativa. E di che dottrina si tratta? Manco a dirlo: «Siamo liberi di fare quel che si vuole, dato che Cristo “ricopre” I nostri peccati, alla sola condizione che si “creda” in lui. Credendo di essere giustificati sola fide se ne va ogni virtù, ogni valore, bollato come presunzione, vanità, ecc., ma soprattutto se ne va la verità» (pag. 35).

Attenzione, però. Vannini non condanna Lutero a partire, ad esempio, da una tradizionale ortodossia controriformista, bensì sulla base della sua idea di mistica. Una visione abbastanza personale del cristianesimo, fortemente antipaolinica (Lutero e l’Apostolo avrebbero in comune «l’odio per la classicità, ovvero per l’onestà della ragione e, insieme, la presunzione di essere nella verità, di essere voce e strumento di Dio», pag. 56), che afferma di richiamarsi soprattutto a Giovanni e a Plotino.

L’interpretazione della Scrittura viaggia più o meno su binari analoghi a quella di Lutero. Il Gesù giovanneo «rigetta Mosè e la sua Legge, prende le distanze dagli ebrei, bugiardi e figli del demonio, padre di menzogna», con rinvio, naturalmente, a Gv. 8. Sembra che la problematica legata a questo tipo di lettura di quel capitolo, e del Nuovo Testamento in generale, sfugga completamente all’autore. Nei termini compassati di Sergio Massironi, che recensisce il libro per l’Osservatore romano: «il libro esprime un antigiudaismo non più comune dopo le tragedie novecentesche».

Dev’essere per questo che l’unica accusa contro Lutero che non compare nel libro è quella relativa ai suoi scritti sugli ebrei. Plotino (citato addirittura più dell’altro grande profeta protagonista del libro, cioè Vannini stesso: a proposito di «egoità»), Porfirio e «la filosofia classica» (pag. 114: tutta quanta, parrebbe) presentano un’antropologia coincidente con quella di Eckhart e dunque con la verità. Eccetera.

Per una volta, confesso che un poco di «dietrologia» incuriosisce più della luterologia vanniniana. Come mai uno studioso di questa stazza pubblica un libro francamente impresentabile, da tutti i punti di vista? Una vocazione personale e diretta ad opporsi a quello che è percepito come un dilagante conformismo filoluterano? Viene da sorridere, naturalmente, ma il volume è in effetti percorso da un afflato «missionario». Oppure il testo va inteso nel quadro del dibattito intracattolico su questo punto, nel quale, come si sa, si confrontano partiti diversi? Ma sparare su Paolo per attaccare Lutero appare strano, l’arsenale utilizzato è in genere diverso. Il catalogo della Lorenzo de’ Medici Press, poi, non aiuta a collocare il libro in un progetto culturale. Esso appare come una specie di meteorite.

L’Osservatore romano, comunque, riconosce al pamphlet alcuni meriti. «Pur con discutibili intenti, Vannini ci riconsegna una storia in cui volgarità, miseria e calunnie hanno lacerato la chiesa e scatenato repressione e barbarie». Detto in altre parole: il libro è un po’ imbarazzante, ma se non altro ci riporta nei rassicuranti territori della sana polemica antiluterana di una volta. Dalle parti di Denifle (che sceglie per sé il nome religioso di Heinrich Suso, un mistico, appunto, del XIV secolo), insomma, che nel 1904 ha immesso sul mercato lo stereotipo del monaco lussurioso: con la differenza che Denifle ha svolto anche un lavoro storico allora di avanguardia. Utilizzarlo oggi, nella versione vanniniana (Massironi: Vannini «documenta un uso strumentale, delirante del testo sacro», da parte di Lutero) e in una sede come l’Osservatore rappresenta un’operazione che suscita qualche domanda e stimola, anche, qualche affermazione. Per quel che conta, ne formulo una: finché l’idea (essa sì «volgare») di una Riforma che «lacera» una mitologica unità preesistente della chiesa non verrà esplicitamente rigettata, nessuna rivalutazione cattolica delle «intenzioni» di Lutero ci potrà aiutare. Il punto non è un giudizio morale sulla persona, ma una valutazione teologica della Riforma del XVI secolo.

(pubblicato su Confronti di maggio 2017)

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