di Marco Vannini (filosofo e teologo)
Su Confronti di maggio abbiamo pubblicato una recensione molto critica al libro di Marco Vannini “Contro Lutero e il falso Evangelo” curata dal teologo protestante Fulvio Ferrario. Vi proponiamo qui la replica dell’autore.
La recensione che Fulvio Ferrario ha dedicato al mio Contro Lutero e il falso evangelo, apparsa nel numero di maggio di Confronti, giudica il libro «francamente impresentabile, da tutti i punti di vista». Un giudizio di condanna senza appello, certamente lecito, ma che però non descrive il contenuto del libro, definito semplicemente «un’antologia dei luoghi comuni, accumulatisi in cinquecento anni, conditi da un odio viscerale nei confronti del personaggio». Mi sia perciò consentita una breve presentazione.
Partiamo dalla constatazione che il libro parla di Lutero solo in due capitoli, quelli centrali, dei sei che lo costituiscono. I primi due si chiedono infatti cosa sia davvero “evangelo”, e cosa “fede”. È l’evangelo la «buona novella» della presenza di Dio, luce eterna, che, come il sole, sempre e su tutti risplende, greci e barbari, pagani e cristiani, comunicandosi a tutti coloro che, appunto evangelicamente, rinunciano a se stessi, odiano l’anima propria, e fanno in se stessi quel vuoto in cui la luce eterna può entrare? Oppure è l’annuncio che Cristo è morto per riscattarci dal peccato di Adamo e che saranno salvi solo quelli che credono in lui?
Strettamente connessa a questa, la seconda altrettanto cruciale domanda: che cosa è fede? È una credenza in realtà oltremondane, nelle quali l’immaginazione regna sovrana, e magari in verità espresse da Scritture definite al di fuori di ogni razionalità “sacre”, e la cui interpretazione permette di dedurre tutto e il contrario di tutto? Oppure è il cammino dell’intelligenza, anzi di tutto l’essere, verso l’Assoluto, che proprio per questo rimuove ogni relativo, ogni preteso sapere, fa il vuoto nell’anima nostra e conduce nel nulla, in quella “notte” , dalla quale soltanto può sorgere l’aurora, ovvero mostrarsi la luce eterna?
Queste due domande appartengono – ritengo – ad ogni coscienza pensante, di sempre, ma tanto più nel nostro tempo, ovvero dopo l’Illuminismo, dopo la filologia contemporanea, che ci rende oltremodo problematica quella fede come credenza e quella adesione alla Scrittura che era, forse, possibile, ad un uomo del medioevo. Dobbiamo fingere di credere all’esistenza di personaggi e di eventi biblici di cui è stato dimostrato che hanno la stessa realtà storica degli eroi omerici e della guerra di Troia?
La suprema bestemmia è chiamare divino ciò che è di mano umana, scriveva l’umanista tedesco Cornelius Agrippa, contemporaneo di Lutero. Anche nel mondo cristiano del passato, infatti, v’era chi aveva pensato che Dio non è un sovrano che si regola ad arbitrio, e che la sua luce si è mostrata anche a quei “maestri pagani” che «conobbero la verità prima della fede cristiana». Che la fede nel suo senso più forte non sia credenza, ma distacco, lo avevano esplicitamente affermato Meister Eckhart, Giovanni della Croce, Hegel (cattolici e protestanti, dunque, giacché l’onestà e l’intelligenza non dipendono dall’appartenenza confessionale). Proprio a questo proposito, il recensore mostra nel suo articolo un grande sconcerto. Non riesce infatti a inquadrare il libro in una delle categorie a lui note e cerca appigli da ogni parte: nel catalogo della casa editrice, nel passato di studioso dell’autore, nella recensione apparsa sull’Osservatore Romano – negativa quanto la sua, ma che concede qualche merito al libro – per cui esso gli appare come un “meteorite”, frutto, forse, del «dibattito intracattolico», come una supposizione dietrologica gli fa supporre.
La soluzione è invece molto più semplice: il libro nasce soltanto dalla libera riflessione, ed è frutto del lavoro di mezzo secolo sulla mistica cristiana.
Venendo infatti a Lutero, il nucleo essenziale della critica al Riformatore, cui il recensore accenna appena, è il seguente. Dalla sua formazione monastica, da Staupitz e attraverso di lui da Taulero e soprattutto dalla Teologia tedesca (ovvero il Libretto della vita perfetta, che pone ai vertici del cristianesimo e che fece stampare due volte), egli apprese e comprese il senso profondo dell’evangelo: rinuncia a se stesso, a tutto l’“io” e il “mio”, sia nelle realtà terrene sia nelle speranze celesti; dunque completo distacco e apertura alla luce eterna, che così irrompe nel profondo dell’anima, con tutta la beatitudine che ne consegue.
Però, come è peraltro facilissimo che avvenga (e lo testimonia la storia della mistica: anzi, proprio contro questo pericolo era stata scritta la Teologia tedesca), questa esperienza straordinaria si converte in Lutero in un rinnovato rafforzamento dell’egoità, che, certa della sua superiorità, si erge, elevata per così dire all’ennesima potenza, al di sopra di tutto. E così, per usare il linguaggio proprio della Teologia tedesca , la «vera luce» si converte in «falsa luce», l’ego si gonfia del suo sapere interiore e condanna chi non lo comprende e non lo riconosce come guida. Infatti Lutero, diventato un capo religioso, rovesciò completamente il suo giudizio, condannando senza appelli anche la Teologia tedesca e tutta la mistica.
È comunque lì che va cercata la chiave dell’esperienza religiosa del Riformatore e, in confronto a ciò, il resto è davvero marginale. Lo compresero subito alcuni contemporanei, a partire proprio dal suo maestro, il venerato dottor Staupitz, che restò cattolico, ma anche altre grandi figure, che pure avevano aderito alla Riforma, come Sebastian Franck e Valentin Weigel, fino ad arrivare a Kierkegaard, per il quale «la Riforma ha cercato di sottrarre con frode a Dio il Vangelo, capovolgendo tutta la realtà». Possiamo liquidare questi personaggi e le loro critiche come «antologia di luoghi comuni» frutto di un «odio viscerale»? E lo stesso dicasi per le critiche alla Riforma e al Riformatore da parte di uomini come Erasmo, Bruno, Nietzsche, cattolici, protestanti o che altro fossero.
Il problema va però ben oltre una polemica che può anche apparire “inattuale”. Esso è espresso negli ultimi due capitoli e nella conclusione del libro in oggetto, che abbandona Lutero per trattare del mondo classico, della filosofia antica, di cui la mistica è, come sostiene Pierre Hadot, la vera prosecuzione. Quattro, infatti, e non tre, sono gli elementi che hanno valore nel rapporto con Dio: fede, speranza, carità, ma anche e soprattutto verità, scrive Porfirio nella Lettera a Marcella. Infatti la fede non è una àlogos pìstis, una credenza irrazionale, ma distacco, ed ha come fondamento la virtù, senza la quale «Dio è un puro nome».
Il rifiuto della fonte greca, ovvero della universalità della filosofia, della ragione, in cui tutte le Chiese sembrano oggi concordi, è il rifiuto del Logos (questo, in fondo, l’unico vero, grosso “rimprovero” mosso dal mio libro a Lutero), ma il rifiuto del Logos significa la fine del cristianesimo, almeno in quanto religione del Logos che è Dio.
Replica
Ringrazio il prof. Vannini per la cortese replica alla mia recensioncina del suo pamphlet contro Lutero. Non ho nulla da aggiungere a quanto ho scritto, né da chiosare su quanto scrive lui. Si tratta, molto semplicemente, di due comprensioni diverse e incompatibili della fede cristiana e dei suoi riferimenti fondamentali, a partire dal Nuovo Testamento. Come notavo nella recensione, il prof. Vannini è anche molto distante dal «normalcattolicesimo» nostalgicamente controriformista. Tranne che su un punto. Mistici o dogmatici, plotiniani o papalini, il denominatore comune è: dalli a Lutero. Così, al di là di ogni dissenso, è contento anche l’”Osservatore Romano”. Fulvio Ferrario
(pubblicato su Confronti di giugno 2017)