di Dea Santonico
Giovedì 13 luglio. Non abbiamo ancora finito di pranzare e arriva la notizia: Giovanni ci ha lasciati. Era disteso sul suo letto quando Yukiko lo ha chiamato per il pranzo e lui ha risposto prontamente: Eccomi! Poi più niente. È rimasto lì, le gambe penzoloni fuori dal letto, come nel tentativo di alzarsi. Ci lascia con quell’ultima parola sulla bocca: Eccomi! Ci sono.
Un po’ di smarrimento. Alcuni di noi vanno a casa di Giovanni. È già vestito. Qualche carezza e poi rimaniamo lì confusi, impotenti. Arriva anche Jawad, il ragazzo afghano che negli ultimi tempi lo accompagnava in macchina. Ci abbracciamo. È inconsolabile. La notizia corre, non si sa neanche attraverso quali canali, messaggi e telefonate si susseguono. Tanti, tantissimi. Non c’è un cliché prestabilito. Ci riuniamo la sera in comunità per decidere cosa fare. Qualche divergenza sul dove fare i funerali. Ci aspettiamo tanta gente, la sede della comunità è troppo piccola. Quella sede d’altra parte sembra il luogo più adatto per il nostro saluto a Giovanni, tra quelle mura disadorne, che raccontano un percorso di fede e libertà. Si fa avanti l’idea di un saluto intimo, tra di noi. Poi Elena ci aiuta a capire. Giovanni non è nostro. Dobbiamo scegliere un luogo che consenta alle tante persone i cui percorsi si sono incrociati con il suo di partecipare a quel momento. E Aldo aggiunge: Giovanni non appartiene a noi, appartiene alla storia. Alla fine la decisione è presa: si farà nel centro polivalente parco Schuster, nel parco sull’Ostiense a fianco della basilica di S. Paolo. Una struttura grande, apribile su due lati verso il parco. Staremo un po’ dentro e un po’ fuori, a ricordarci quella zona di confine tra dentro e fuori, quel cammino al margine percorso da Giovanni. Con sofferenza, con dignità e con coraggio.
Il venerdì pomeriggio Giovanni arriva nella sede della comunità di S. Paolo. Ci sarà una veglia per tutta la notte, alternandoci fino alla mattina del sabato, quando ci saranno i funerali. Durante la veglia letture, pensieri, ricordi, canti. Tanta commozione. Incontri di persone che non si vedevano da anni. Nel cuore della notte si ritrovano a vegliare Giovanni Elena e Marco, stessa cucciolata nel laboratorio di religione di tanti anni fa. Ora sono quarantenni.
Alle 9 di sera arrivano i monaci, l’abate, don Roberto, don Isidoro, che era con Giovanni e con la comunità ai tempi del nostro percorso in basilica, ed un monaco giovane. Don Roberto ricorda Giovanni. Ci racconta il suo disagio prima di incontrarlo, la paura del suo e del nostro giudizio per l’allontanamento di Giovanni dalla basilica. Racconta anche la sua sorpresa quando, in occasione del primo incontro, Giovanni gli ha baciato l’anello. Non capiva perché lo avesse fatto. Non lo capiamo neanche noi. Lui che, da abate, l’anello se l’era tolto, dopo che qualcuno glielo aveva baciato mentre distribuiva la comunione. Una cosa però è certa: se lo ha fatto per lui doveva avere un senso. Giovanni ti spiazza sempre, non finirà mai di sorprenderci! Poi un grande regalo dei monaci per lui: un canto gregoriano.
E arriva il sabato mattina, il momento di accompagnare Giovanni fuori dal nostro stanzone di via Ostiense 152. Ci pensano i ragazzi a prendere la bara in spalla. Yukiko aveva espresso questo desiderio. Cantiamo insieme We shall overcome. Quando ci riusciamo, senza che la voce ci rimanga spezzata in gola. E sono ancora i ragazzi a portarlo attraverso il parco fino al luogo della celebrazione eucaristica. I rintocchi lenti delle campane della basilica sono per lui. La voce di Cristina che canta Pie Jesu, dalla Messa “Requiem” di Gabriel Fauré, ci avvolge tutti e tutte. La bara a terra assediata da ragazzi e ragazze, tutti per terra accanto a lui. Tante persone sono lì insieme alla comunità. Amici delle comunità cristiane di base italiane, delle riviste Adista, Confronti, Riforma, Nev (Notiziario delle Chiese evangeliche), della rubrica di Rai 2 Protestantesimo, ex scout, sacerdoti, suore, monaci, protestanti, musulmani, atei, amici palestinesi e iracheni, un gruppo di omossessuali credenti, gruppi femministi, vecchi amici che non vedevamo più da anni, volti a noi sconosciuti. Tutti insieme a dare il loro saluto a chi, oltre la religione e le religioni, ha saputo parlare il linguaggio della profezia e della fede, il solo capace di arrivare al cuore di tutti.
Al Padre nostro ci stringiamo le mani. Un imam, che siede accanto ad un monaco, gli prende la mano. E poi spezziamo insieme il pane, come Gesù ci ha chiesto di fare. In quel pane spezzato c’è il corpo, la vita di Gesù spezzata per gli emarginati e le emarginate del suo tempo. Giovanni quel pane l’ha spezzato in tutta la sua vita, con tutti coloro che nella nostra società sono messi ai margini, pagando lui stesso il prezzo dell’emarginazione. Vengono distribuiti i cestini con il pane e le coppe del vino. Vedo l’imam prendere il pane (il vino no), poi è la volta della comunione dei monaci, che gli sono accanto. La voce di Marta che canta Gracias a la vida. E tanti altri canti. Jacopo gli dedica Suzanne, di L. Coen.
Mentre Giovanni esce, il saluto finale è affidato a Freedom:
Oh freedom, oh freedom, oh freedom
over me, over me
And before I’ll be a slave, I’ll be buried in a grave,
I’ll go home to my Lord,
and be free, and be free.
Ed ora c’è il dopo da affrontare. Un giorno di qualche anno fa, parlando del Buddha, l’illuminato, Giovanni ci raccontava le sue parole in punto di morte, rivolte ai discepoli che piangevano: «Bisogna che io muoia perché voi diventiate Buddha».
Che la tua luce, Giovanni, ci invada e faccia uscire tutta la luce che è nascosta dentro di noi.
Al tuo Eccomi rispondiamo con il nostro: Eccoci, Giovanni, ci siamo!