di Mostafa El Ayoubi (caporedattore Confronti)
Nel complesso puzzle geopolitico del Medio Oriente, si inserisce una nuova crisi tra l’Arabia Saudita e il Qatar. Gli Usa di Trump hanno ribadito la fiducia e la protezione nei confronti della prima e proseguono nel tentativo di recuperare il terreno perso nella regione dall’invasione dell’Iraq in poi. Cresce intanto il ruolo di Turchia, Russia e Iran.
Un’estate ancora più rovente del solito nel Medio Oriente. Dal punto di vista meteorologico, la temperatura all’inizio di luglio si aggirava tra i 50 e i 60 gradi in Paesi come l’Arabia Saudita e il Kuwait. Livelli record secondo gli esperti. E il clima politico non è da meno. Ad innalzare la temperatura della cronica crisi nella regione, lo scontro innescato il 5 giugno scorso tra l’Arabia Saudita e i suoi alleati – Emirati Arabi, Bahrein ed Egitto – da un lato e il Qatar dall’altro. Questa nuova crisi ha colto di sorpresa molti, perché fino al giorno prima i cugini di Riyad e Doha erano stretti alleati strategici nella lotta per il potere regionale nel Medio Oriente in contrapposizione con un contendente di peso, ovvero l’Iran. La Turchia, a sua volta, per ragioni storiche e confessionali è nella partita sin dal 2011, data che corrisponde all’esplosione della cosiddetta “primavera araba”, con l’ambizione dell’attuale presidente Recep Tayyip Erdogan di allargare la sua influenza politica e militare sul mondo arabo, come ai tempi dei suoi antenati ottomani.
Gli arabi sono diffidenti nei confronti dei turchi ma l’esigenza di far fronte comune nei confronti degli iraniani ha costretto Riyad a stabilire un’alleanza tattica, artificiosa e temporanea con Ankara. La Siria sin dal 2011 è stata l’arena dove lo scontro per l’egemonia sul Medio Oriente è stato più brutale, portando alla distruzione di questo Paese. La caduta di Damasco avrebbe messo fuori gioco Teheran e consentito agli arabi del Golfo e ai turchi di giocarsela tra di loro. Ma nonostante la guerra per procura affidata a mercenari e jihadisti sostenuti dall’Arabia Saudita, dal Qatar e dalla Turchia, come dimostrano i rapporti di diverse istituzioni internazionali, al Assad è rimasto al potere. E ciò ha consentito all’Iran di rafforzare la sua presenza in Medio Oriente a scapito dei turchi e degli arabi.
Inoltre, la mancata operazione militare di un regime change in Siria è una battuta d’arresto anche per Washington, dato che ha intaccato la sua egemonia nella regione e fatto emergere un “nuovo” attore negli equilibri geopolitici internazionali: la Russia. È in questo complesso puzzle geopolitico che va inserito il tassello della crisi tra l’Arabia Saudita e il Qatar. Ed è una crisi che riguarda tutti i Paesi finora citati: ne favorisce alcuni, come l’Iran e la Siria, e ne danneggia altri, cioè i Paesi arabi del Golfo e in qualche modo anche la Turchia.
Trump versus gli ayatollah iraniani
Per decifrare l’origine di questa crisi, bisogna risalire a qualche settimana prima della sua deflagrazione. Il 20 maggio il nuovo presidente statunitense Donald Trump si è recato a Riyad, la sua prima trasferta all’estero! Il senso di tale visita era chiaro: il rinnovo della fiducia e della protezione nei confronti dell’Arabia Saudita come il principale luogotenente di Washington in Medio Oriente/Golfo. Trump ha convocato i suoi alleati arabi a Riyad per illustrare loro la sua strategia futura nella regione, che consiste in sostanza nel recuperare il terreno perso dal suo Paese a partire dal 2003, quando invase l’Iraq. Terreno in gran parte perso a favore dell’Iran, che oggi esercita una sua influenza strategica su quattro capitali arabe: Damasco, Baghdad, Sana’a e Beirut. E inoltre esso sostiene sistematicamente l’Hezbollah libanese e il movimento palestinese Hamas, considerati da Israele una minaccia per la propria sicurezza.
Il fallimento del piano della Casa Bianca di cacciare al Assad dal potere per isolare l’Iran – in gran misura causato dell’inattesa entrata della Russia, per calcoli geostrategici, nell’arena siriana – ha costretto Washington a elaborare un nuovo piano per intaccare l’Iran, nemico giurato sia degli americani che degli israeliani e dei sauditi, ognuno per motivi propri.
I sauditi temono che un Iran egemone sulla regione potrebbe minacciare l’esistenza stessa del regime wahabita della famiglia al Saud; mettere in discussione il loro ruolo come «custodi dei luoghi santi della Mecca e la Medina» e favorire l’espansione dello sciismo iraniano – considerato una eresia dai wahabiti – nel mondo islamico, a maggioranza sunnita.
Israele teme l’Iran per il sostegno di quest’ultimo, come è stato già menzionato, a Hezbollah e a Hamas, considerati un grosso problema per la sua sicurezza. Il forte indebolimento della Siria rassicura Tel Aviv, che tuttavia resta molto preoccupata della sempre più crescente influenza geopolitica di Teheran nel Medio Oriente e dal suo sostegno ai palestinesi, perché teme che il rapporto di forza possa cambiare a proprio sfavore.
Gli Usa sostengono in modo incondizionato Israele e quindi condividono le sue preoccupazioni rispetto all’Iran. Ma anche loro hanno motivi propri strettamente legati a interessi geopolitici, geoeconomici e geomilitari, funzionali al loro ruolo come la potenza egemonica mondiale. L’Iran, fuori dalla sfera d’influenza statunitense dalla caduta del regime dello Scià nel 1979, rappresenta un grande ostacolo per la conservazione della loro egemonia mondiale, la quale passa per il controllo delle fonti d’energia principali, petrolio e gas naturale – di cui è ricco il Medio Oriente/Golfo Persico – per condizionare l’economia delle potenze concorrenti: la Russia e la Cina, con le quali l’Iran è in buoni rapporti, in particolare con il Cremlino.
L’accordo sul nucleare, che ha dato forza agli iraniani, non piace a Trump, che però è difficile lo possa disattendere. E una guerra diretta contro Teheran sarebbe ingiustificabile agli occhi dell’opinione pubblica americana e di quella internazionale e le sue conseguenze sarebbero difficili da immaginare persino per la sicurezza di Israele, che da anni cerca di trascinare gli Usa in uno scontro armato contro il Paese persiano (dove vive ancora una discreta comunità ebraica, che dispone di un suo rappresentante in seno al Parlamento). Quindi oggi più che mai una guerra convenzionale è una via impraticabile.
Gli unici canali praticabili sono un ampio isolamento internazionale dell’Iran e la sua destabilizzazione dall’interno. Questo compito, Trump sembra averlo affidato ai sauditi durante la sua visita a Riyad. In effetti poco dopo, il 5 giugno, l’Arabia Saudita apre la crisi con il Qatar intimandogli di rompere le sue relazioni diplomatiche e commerciali con l’Iran, con il quale condivide la più grande riserva di gas naturale del mondo. E due giorni dopo, il 7 giugno, i terroristi dell’Isis/Al Qaeda hanno colpito il Parlamento e il mausoleo dell’ayatollah Khomeini, fondatore della Repubblica islamica iraniana. Un atto senza precedenti nella storia moderna dell’Iran, la cui tempistica fa pensare al coinvolgimento dell’intelligence saudita nei due attentati, visto il legame provato tra essa e la galassia dei jihadisti wahabiti. Teheran ha accusato Riyadh di esserne il responsabile, ma la sua azione è rimasta confinata nell’ambito strettamente diplomatico.
È difficile che il terrorismo di matrice wahabita, in forte declino in Siria e in Iraq, possa scalfire il potere degli ayatollah, che in questi 38 anni di governo è riuscito a superare ogni tentativo di destabilizzazione: dalla guerra imposta all’Iran dall’Iraq di Saddam Hussein tra il 1980 e il 1988, per conto degli Usa e con i finanziamenti dei Paesi arabi del Golfo, al tentativo di innescare una “rivoluzione colorata” in occasione delle elezioni presidenziali del 2009, ai vari embarghi e sanzioni economiche. Tutto ciò non ha fatto che rafforzare l’articolato e complesso sistema di potere iraniano.
Perché allora colpire il Qatar che, pur con il suo reddito procapite di 132mila dollari che lo pone largamente al primo posto a livello mondiale, resta tuttavia un nano geopolitico per la sua esigua dimensione demografica, con 2,2 milioni di abitanti (di cui l’88% sono di origine non qatarina), sperando di isolare ulteriormente l’Iran? Per molti osservatori è una mossa incomprensibile, soprattutto perché il Qatar è considerato una specie di colonia americana nel Golfo Persico, nel quale Washington dispone di due basi militari: a-Saylia e al-Udaid. Quest’ultima costituisce la direzione centrale americana con un raggio di attività militare e di intelligence che copre il mondo arabo e arriva fino ai confini con la Cina. Inoltre al-Udaid è il secondo deposito di armi americane nel mondo (dopo quello della Pennsylvania) con un valore di oltre 36 miliardi di dollari. Senza il consenso di Washington, Riyad non avrebbe mai osato prendersela apertamente con il Qatar. Viene quindi da chiedersi: perché allora lo ha permesso?
Stroncare l’alleanza tra la Turchia e il Qatar
Nei mesi precedenti alla crisi, si è registrato un notevole avvicinamento diplomatico tra Ankara e Doha, sigillato con un accordo di collaborazione militare e la creazione di una base militare sul territorio qatariota, già di dominio americano. Ciò, ovviamente, non era per nulla piaciuto al governo americano e tanto meno a quello saudita.
Pur essendo la seconda più grande potenza militare della Nato, la Turchia di Erdogan non è mai stata del tutto addomesticata dagli Usa, che guidano la medesima organizzazione. Il presidente turco sogna di estendere la sua egemonia sul mondo arabo e instaurare un suo califfato in memoria della gloriosa epoca ottomana. Egli ha dimostrato di essere un uomo scaltro che non guarda in faccia nessuno, un dittatore con sembianze moderne. In varie occasioni si è scontrato con gli americani sulla strategia da adottare contro Damasco. Ha messo in crisi l’Unione europea con la questione dei profughi siriani nel 2015. Gli Usa non si fidano di lui e lui non si fida di loro. La diffidenza reciproca è giunta al culmine con il colpo di Stato in Turchia nell’estate 2016. Erdogan aveva accusato Washington di essere la mente organizzativa del tentato golpe contro di lui, fallito grazie all’aiuto dei servizi segreti russi che avvisarono in tempo il Mit, l’intelligence turca. Una delle conseguenze di questa vicenda è l’avvicinamento di Ankara a Mosca e in qualche modo anche a Teheran.
Il precipitarsi di Trump a Riyad rientra in quest’ottica, con l’obiettivo di arginare il potere crescente di Ankara e richiamare all’ordine quegli alleati che intendono collaborare con essa. Ma perché proprio Riyad? Perché storicamente i sauditi hanno un conto aperto con gli ottomani. Nel 1818 il sultano turco Ibrahim Bash mise fine al primo “stato” saudita, catturò il suo governatore Abdallah ben Saud e lo impiccò ad Istanbul. Inoltre, da un punto di vista confessionale, vi è una netta contrapposizione tra i sunniti sauditi di estrazione wahabita e i sunniti turchi al potere, che sono legati alla sfera del movimento dei Fratelli musulmani (Fm). Questi ultimi sono considerati da al Saud come una seria minaccia contro l’esistenza del suo regno e di quello di altre monarchie del Golfo, in particolare quella degli Emirati Arabi.
Dopo la disfatta dei Fm in Egitto, molti dei suoi membri si sono rifugiati in Turchia – diventata il nuovo punto di riferimento politico per il movimento – e molti altri nel Qatar, ovvero nel cortile della casa saudita. Ciò spiega l’accanimento di Riyad, di Dubai e anche del Cairo contro Doha, alla quale è stato intimato l’ordine di adempiere ad una decina di obblighi tra cui: la rottura totale con Teheran, l’annullamento del contratto per la creazione di una base militare turca, l’espulsione dei Fm dal suo territorio e la chiusura del canale satellitare Al Jazeera, di proprietà qatarina, vicino ai Fratelli musulmani.
Sia gli americani che i sauditi si aspettavano una capitolazione senza resistenza di Doha in pochi giorni. Invece la risposta dei qatarini è stata alquanto sorprendente. La base militare turca, che prima della crisi era ancora un progetto sulla carta, è stata inaugurata in fretta e furia. Erdogan si è schierato con la famiglia regnante Al Thani attaccando diplomaticamente Riyad e Dubai. E l’Iran, seppur in modo prudente, è entrato in gioco a sostegno di Doha. Ed è proprio quello che voleva impedire Trump recandosi in Arabia Saudita un mese prima che iniziasse quest’estate geopoliticamente più che mai rovente in Medio Oriente.
(pubblicato su Confronti di luglio/agosto 2017)