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“Più integrazione significa più sicurezza”

by redazione

intervista a Emma Bonino (a cura di Mostafa El Ayoubi)

A maggio ha preso il via la campagna “Ero straniero – L’umanità che fa bene”, una raccolta firme su una legge di iniziativa popolare in materia di immigrazione per superare la legge Bossi-Fini, promossa da Radicali italiani insieme a molte associazioni e sindaci.

Superare la Bossi-Fini, ma anche «vincere la sfida sociale dell’immigrazione puntando su accoglienza, lavoro e inclusione». Questi gli obiettivi che si pone la proposta di legge di iniziativa popolare promossa da Radicali italiani, Casa della carità, Acli, Arci, Asgi, Centro Astalli, Cnca, A Buon Diritto e Cild, a cui hanno aderito – tra gli altri – anche Caritas italiana, Migrantes, Comunità di Sant’Egidio, Oxfam, Cir, Un ponte per…, Pax Christi e Libera. Abbiamo rivolto alcune domande alla leader radicale Emma Bonino.

Qual è l’esigenza principale da cui nasce questa proposta di legge di iniziativa popolare sull’immigrazione?

Il problema oggi in Italia non sono tanto i cinque milioni di immigrati regolari: il problema sono i circa 500mila irregolari nel nostro Paese e tutto l’insieme governato da una legge a nostro avviso obsoleta, la Bossi-Fini, che non aiuta né facilita l’integrazione. Quindi, non essendoci canali regolari per entrare in Italia, magari per cercare lavoro, il flusso che abbiamo è rappresentato da tutti i richiedenti asilo, perché non c’è altra strada per entrare. Di queste richieste, più del 60% vengono respinte. Ed è chiaro che i signori a cui è stata respinta la richiesta molto difficilmente tornano in Bangladesh o in Guinea, per dire. Entrano quindi in una “zona grigia”: senza documenti, fragili ed esposti a ogni forma di ricatto; per non parlare di attività collegate con la criminalità, dal narcotraffico all’espianto degli organi alla prostituzione. Molti ovviamente lavorano in nero e sappiamo bene che, se non ci fossero gli immigrati, interi comparti dell’economia italiana – l’agricoltura, le costruzioni… ma pensiamo anche all’aiuto domestico – chiuderebbero del tutto.

Il governo Italiano sta puntando molto sul modello degli Sprar. Lei come lo valuta?

Il modello degli Sprar a noi sembra molto buono: non aggregarli in centri che in realtà sono di detenzione, ma a piccoli gruppi cercare di integrarli nelle varie città. Ha però due limiti: il primo è che solo 2.000 sindaci su circa 8.000 fanno parte di questo programma e il secondo è che, anche per quelli di buona volontà, i limiti che pone la Bossi-Fini sono stringenti, quindi è difficile provvedere a trovare il lavoro o all’integrazione o a corsi di lingua. Siamo quindi governati, in una situazione difficile, da una legge obsoleta e da un progetto molto buono che però ha i limiti che la legge impone. Allora la proposta che noi abbiamo avanzato, che per fortuna è stata accolta molto bene da tutte le organizzazioni che lavorano nel settore più un centinaio di sindaci coraggiosi, propone diverse forme di entrata legale nel nostro Paese, che vanno dai corridoi umanitari a permessi transitori per ricerca lavoro e così via.

Uno dei punti focali di questa proposta di legge prevede la concessione del permesso di soggiorno a tutti quelli che hanno il diniego della domanda di asilo.

Sì, in modo che possano cercarsi un lavoro. Magari con dei limiti, per carità… ci sono poi delle riforme che dovrebbero essere fatte sui centri per l’impiego, che non funzionano né per gli immigrati né per gli italiani. Basta fare un paragone fra Italia e Gran Bretagna, ad esempio, per capire che questi centri sono sottodimensionati in termini di risorse umane e finanziarie. Di fatto, ci stiamo creando noi stessi un problema, ossia un esercito di irregolari che poi sarà difficilmente gestibile. E per loro è terribile, perché non avendo i documenti in ordine sono sottoposti a qualsiasi forma di ricatto.

Infatti nella proposta di legge c’è anche la possibilità di aiutare coloro che denunciano situazioni di sfruttamento dando loro un permesso di soggiorno, che gli permetta di inserirsi regolarmente nella società. Tuttavia, per chi governa, la questione dell’integrazione è secondaria. Non è così?

Questo è il punto essenziale, di cui però non si vuole parlare. Siamo sempre a «aiutiamoli a casa loro». Va tutto bene, poi con me che ho fatto la campagna contro lo sterminio per fame si sfonda una porta aperta; ma rimane il fatto che è un tema di generazioni, non è che lo sviluppo nei paesi africani può avvenire domattina. Io non mi nascondo affatto la difficoltà della questione, d’altra parte la gestione degli immigrati non è mai stata semplice in nessuna parte del mondo e in nessuna epoca storica, però ci sono delle buone pratiche da cui potremmo – se lo volessimo – prendere spunto. Il problema di fondo è se vogliamo entrare nell’ottica dell’integrazione o se vogliamo continuare nell’ottica della cosiddetta sicurezza.

Il decreto Minniti-Orlando voluto dal governo Gentiloni calca la mano in qualche modo sull’aspetto securitario, mentre la vostra proposta punta piuttosto sull’integrazione.

Capisco benissimo che la sicurezza è un dovere dei governi e, per quanto possibile, anche un diritto dei cittadini. Il problema è come si arriva alla sicurezza. Noi siamo convinti che l’integrazione aiuti la sicurezza e questo lo dimostrano anche le ricerche e le cifre. Per esempio quelle sul tasso di criminalità, che non è più alto di quello degli italiani. Per “sicurezza” molti intendono i respingimenti. Ma dove? Abbiamo solo tre accordi con altri Paesi. Gli annunci sono “popolari”, ma poi sono impraticabili. Con la nostra campagna cerchiamo di parlare con la gente, ma anche col Governo. Se uno abbraccia il tema dell’immigrazione, poi le soluzioni pratiche si trovano e poi se c’è un tema in cui i nostri interessi e i nostri valori coincidono è proprio quello dell’immigrazione. Ma la manipolazione politica, i pregiudizi e le falsità (si veda il nostro piccolo prontuario: “Tutto quello che sai sugli immigrati è falso”) sono tali che i contrari hanno molta voce sui media, mentre chi ha un’impostazione diversa non riesce a farsi sentire. Abbiamo quindi deciso di intraprendere questa raccolta firme, che è comunque un’operazione molto complicata: speriamo di farcela.

Riguardo al vostro prontuario, c’è un punto che confuta i pregiudizi secondo i quali gli immigrati rubano il lavoro agli italiani.

Questo è sconfessato da tutte le cifre possibili e immaginabili, dell’Istat, di Confindustria, della Fondazione Moressa… non è vero: gli immigrati fanno quei lavori che gli italiani non vogliono fare. E questo lo dimostrano proprio le cifre, che smontano anche questo stereotipo. Per esempio, i figli di immigrati sono 805mila circa: significa 35mila classi, cioè 68mila insegnanti. Quindi senza di loro avremmo 68mila posti di lavoro in meno per italiani.

C’è un aspetto interessante sui diritti politici: si propone di far partecipare gli immigrati alle elezioni locali.

Sì, innanzitutto perché è una forma di dignità e di integrazione e poi è basata su un fatto semplice: dove paghi le tasse, devi avere una parola da dire. È una forma di partecipazione importante, li fa sentire più cittadini. Sentire la loro voce, le loro preoccupazioni, non può che far bene.

Riguardo alla cittadinanza, la normativa proposta sullo ius soli divide il mondo politico e la società. Lei che ne pensa?

Penso che abbiamo una classe politica che rimane indietro rispetto al Paese. Siamo rimasti quasi l’unico paese europeo che ancora ragiona con lo ius sanguinis. Peraltro la proposta dello ius soli è molto moderata: richiede una lunga presenza sul territorio italiano, tra le altre cose. Non è quindi una cittadinanza automatica. Il dibattito politico sul tema ha mostrato una delle pagine più tristi della vita democratica. Questo la dice lunga su un punto fondamentale: la mala gestione di questo complesso di cose, prodotta dalla strumentalizzazione politica.

La forte destabilizzazione di molti paesi arabi a partire dal 2011, data di inizio delle cosiddette “primavere arabe”, ha provocato un’ondata di profughi verso l’Europa. L’immigrazione ha a che fare con le dinamiche geopolitiche?

Certo. I boat people se ne andavano non per carestia, ma per la guerra in Vietnam. L’instabilità, chiamiamola così, violenta e sanguinosa del sud del Mediterraneo, ha fatto esplodere il fenomeno. E oggi coinvolge non solo il Mediterraneo: dal Bangladesh, per esempio, arrivano passando dall’Egitto.

L’Europa direttamente o indirettamente ha avuto un suo ruolo per calcoli geostrategici in questa destabilizzazione del Medio Oriente/Mediterraneo del sud? Penso ad esempio alla Libia e alla Siria.

Nel 2011, quando è scoppiato il tutto, l’Europa è stata colta di sorpresa. Non era neanche entusiasta… Ricordo le manifestazioni di quando è caduto il muro, ma non ne ricordo neanche una alla caduta di Ben Alì in Tunisia. Tanto da parte della gente che da parte dell’establishment politico. Perché non ce lo si aspettava, non si era preparati; eravamo abituati a rapporti coi vecchi leader, e queste novità spaventavano. La ribellione un po’ disordinata di allora non ha certamente avuto il supporto europeo, né per farla scoppiare né per gestirla subito dopo. Perché poi, non essendoci una politica estera comune, molti paesi hanno i propri interessi in politica estera bilaterale: noi , la Spagna, la Francia, l’Inghilterra… aggiungiamoci poi la Turchia. Siamo andati insomma ognuno a ruota libera e per i fatti propri.

 

La cattiva “governance” di questa crisi ha conseguenze sull’Europa. Pensiamo al fenomeno del terrorismo di matrice islamica, che sta colpendo le città europee creando un clima di diffidenza nei confronti degli immigrati.

È evidente. Penso che gli attentati siano un effetto collaterale di questa destabilizzazione politica sociale ed economica. Basicamente il terrorismo in tutte le sue forme colpisce molto di più il Pakistan, la Somalia, la Nigeria, la Siria, l’Iraq, il Libano… e poi ogni tanto c’è qualche attentato in Europa. È chiaro che siamo più sensibili a quelli che avvengono in Europa rispetto a quelli che avvengono a Kabul o a Baghdad, che peraltro sono giornalieri. E tutto ciò crea questo clima di paura. È assolutamente vero che non tutti i musulmani sono terroristi, ma è anche vero che la stragrande maggioranza dei terroristi “pretende” di essere musulmano. Anche sul terrorismo il focus per me non è l’Europa. Sono altre aree, certo non lontane. Io torno a dire che la sicurezza è un dovere dello Stato. E che più integrazione vuol dire più sicurezza.

Come giudica la prima visita estera del presidente degli Stati Uniti Trump, per esempio con l’incontro in Arabia Saudita, paese tra l’altro sospettato di avere dei legami di tipo ideologico, finanziario e logistico coi gruppi terroristici?

Più che di sospetto, il legame tra i sauditi e i jihadisti armati è provato. Risale ai talebani e Al Qaeda negli anni Ottanta, durante la guerra in Afganistan scoppiata nel 1979, in cui era già abbastanza evidente; sino ad Al Nusra, Daesh, cambiando sigle e alleanze. Ma da dove arrivassero i finanziamenti non è mai stato un grande mistero. La visita di Trump segna un tentativo di tornare alle vecchie alleanze, cioè quella dell’Occidente coi sunniti, possibilmente wahabiti. Si tratta dell’alleanza tradizionale, l’accordo bilaterale Stati Uniti-Arabia Saudita, che neanche i tremila morti di New York dell’11settembre 2001 hanno scalfito. La dice lunga. Una volta era per le basi, poi per il petrolio; ora il petrolio non conta più molto… certamente la visita di Trump mi sembra – poi vedremo – un ritorno alle alleanze tradizionali, rispetto all’apertura di Obama e noi tutti nei confronti degli sciiti, e quindi con l’accordo sul nucleare con l’Iran. Io non credo sia una grande mossa, né che sia prudente. Certo, i risultati si sono visti subito. La guerra intrasunnita, la rottura diplomatica col Qatar, si spiega così. Dove vadano a parare non si sa. La mossa è preoccupante. Certo che il Qatar non può vivere isolato, e le condizioni poste dall’Arabia Saudita sono tra il visionario e il provocatorio. Non potendo vivere isolato, il Qatar cercherà contatti con la Turchia, o con l’Iran. Quindi anche quella è un’altra regione di incertezza, che non sono sicura non esploda in qualche modo.

(pubblicato su Confronti di luglio/agosto 2017)

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1 comment

Giuseppe Andrea 12 Luglio 2017 - 11:59

Da un pò di tempo a questa parte si sente spesso ripetere:” aiutiamoli a casa loro”. Se consideriamo la nostra situazione, ovvero un’altissima evasione fiscale, per non parlare dell’elusione fiscale, una giustizia lenta (irragionevole durata dei processi) e ingiusta , la presenza di tre, italianissime, tra le prime dieci multinazionali del crimine, un livello di corruzione spaventoso, un debito pubblico in costante e inesorabile crescita, un numero di leggi eccessivo e in buona parte incomprensibil., mi appare un pò grottesco da parte di alcuni politici italiani sostenere che noi dobbiamo “aiutarli in casa loro”. Ho l’impressione che nessuno abbia voglia di aiutarci in casa nostra e mi sembra che abbiamo qualche problema con l’Europa.

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