di Roberto Bertoni (giornalista e scrittore)
«Zavoli aveva in serbo un discorso poetico che ci auguriamo lungo»: questo fu il commento di Carlo Bo in occasione dell’uscita della prima silloge poetica di uno dei più noti e apprezzati giornalisti italiani. Era il 1995 e, a oltre settant’anni, aveva inizio la parabola poetica di un artigiano della parola e del pensiero, di un uomo abituato a cesellare i singoli termini, di un cronista che non ha mai smesso, né nel corso della sua attività politica né, tanto meno, quando si è cimentato con la poesia, di essere tale.
La strategia dell’ombra, ultima raccolta in ordine cronologico, che racchiude in sé versi di guerra e versi di straordinaria modernità, riflessioni su un mondo ormai consegnato ai libri di storia e analisi globali di straziante attualità, è infatti una sorta di grande diario in cui le pagine si susseguono attraversate da un profondo pathos narrativo, come una cascata che non smette mai di scendere, come un caleidoscopio di sentimenti, di sguardi, di magie, di attese e di speranze che trova sbocco in un’antologia che segna forse il punto culminante di un viaggio iniziato oltre vent’anni fa e giunto oggi ad una maturità espressiva pressoché totale.
All’inizio Zavoli pone una citazione di Shakespeare: «La poesia dà un nome e una dimora a ogni cosa»: un concetto ribadito dallo stesso autore nel corso di tutto il libro, come se questo tentativo inesausto di attribuire ad ogni singola esperienza una casella si concludesse, infine, con una catalogazione completa, una sorta di emeroteca in versi nella quale è facile scorrere il passaggio del tempo, di un’avventura lunga quasi un secolo che speriamo ci regali ancora tante pagine di armonia e comprensione di noi stessi.
E poi le descrizioni, meticolose e quasi didascaliche, che si avvicendano, specie all’inizio, in una sequenza di emozioni recondite. Il primo bombardamento, le ansie, le paure, la disperazione e la voglia di ricominciare, fino alla tragedia del piccolo Aylan riverso sulla riva della spiaggia di Bodrum e alle invocazioni a papa Francesco in nome della pace; senza dimenticare il costante dialogo con se stesso e con le proprie tante città: dalla natia Ravenna a Rimini, di cui è cittadino onorario.
«Mi guardo intorno / e non riesco a dirmi / se siamo in pace / o all’erta sui bastioni; / se ho sul capo il celeste dipinto / nel cielo dei teatri e delle chiese, / o l’acciaio che fa le prove / per il giorno dei morti, e aggiungerne di nuovi». Era il 2 novembre del ’43, il giorno del primo bombardamento, che si presentò agli occhi di uno Zavoli ventenne e ancora sognatore.
«Un anello di morte già circonda / il luogo dove esploderà un fanciullo / votato al cupo orgoglio della madre, / china a stringergli la cintura / del martirio. / Ora quel mite lupo va a sbranarsi / al centro dell’ovile, / mentre il silenzio affila il dubbio / della gente; / poi verranno le grida e si saprà / del massacro intorno al lampo / del bimbo prediletto. / Quel sangue è nelle vene / di altri figli, pronti ad avere sulla fronte / il nastro bianco della dedicazione». Qui parla lo Zavoli maturo, disincantato, tragico; uno Zavoli che riflette sui bambini-soldato, sulla piaga del terrorismo, sull’orrore di una contemporaneità che vede sfuggirgli sempre più di mano. E poi Aylan, cui dedica una lirica implicita dai tratti davvero struggenti: «Una mattina, al largo, il mare lascia dondolare / i corpi dei bambini nelle culle / aperte dalle onde, / mentre a riva il fanciullo spiaggiato, / un cucciolo perduto dai delfini, / ha la morte con l’abitino rosso e le scarpine blu, / il mare consegna di continuo / piccoli corpi trasparenti come le meduse, / e il petto simile / a una grata di vetro».
Zavoli ascolta, parla con i nipoti, si sofferma a riflettere sulla complessità di mille argomenti e traccia una serie di bilanci: su se stesso, sul mondo, sulla vita. Infine si congeda: «Ora vado a dormire / con le tue mani erbose preparami / una coltre di salvia e rose, / lascia che il sonno scenda come un’ostia / su una lingua di muschio, / e si accenda un corteo di lucciole marziali, / il simbolo che dica vincerà / la vita». È uno Zavoli ancora assetato di vita e di bellezza, di poesia e di sogni, di favole e di intensità nelle parole e nei gesti. Un uomo che ha superato i novanta ma non sembra essere arrivato alla fine, a dimostrazione di quanto avesse ragione Montale quando definiva la poesia una forma di salvezza universale, un linguaggio che tiene giovani, che non lascia mai cadere i dettagli, attento al prossimo e in grado di trasformare le parole in un qualcosa di metafisico, come se la materia assumesse, plasmata da quel suono e da quei ritmi, un altro volto. «È il più alto modo di pensare», ha aggiunto una volta Zavoli, e la sua nuova raccolta ne è una conferma.