di Enzo Pace (sociologo, membro del Consiglio per le relazioni con l’islam)
Non riconoscere la cittadinanza a questi nuovi (di fatto) cittadini italiani significa avere lo sguardo ripiegato sul presente e non proiettato verso il futuro.
Ius sanguinis o Ius soli? Si tratta veramente di due criteri diversi e opposti per l’accesso alla cittadinanza? Inoltre, sono ancora strumenti giuridici adeguati a rappresentare il mutato rapporto fra cittadinanza e nazionalità, che le società occidentali (ma non solo) conoscono a seguito dell’elevata mobilità di donne e uomini che emigrano dai loro Paesi di origine facendo famiglia altrove? Se restiamo nel perimetro dell’Unione europea, salvo pochissime eccezioni (Gran Bretagna e Portogallo, pur se con differenti procedure), il regime che regola l’accesso alla cittadinanza per gli stranieri e i loro figli è da tempo un misto di diritto di sangue e diritto di suolo.
In molti casi la regola dello ius sanguinis è stata adattata in modo tale da rendere più facile l’accesso a chi non può vantare una discendenza per linea di sangue, fondata sull’equazione fra cittadinanza e nazionalità. Dal 2000 circa, gli stati europei che avevano in prevalenza regolato l’accesso alla cittadinanza in base allo ius sanguinis, infatti, hanno introdotto dei correttivi che, in buona sostanza, riconoscono lo status civitatis anche a quanti sono nati da genitori stranieri, sprovvisti dunque del requisito della nazionalità. Per esempio è quanto è avvenuto in Germania, Irlanda, Spagna e Svezia. Anche in Italia qualcosa è cambiato con la legge 91 del 1992. Il regime dello ius sanguinis è stato integrato dalla procedura che prevede che chi nasce in Italia da genitori stranieri può fare richiesta di cittadinanza al compimento del diciottesimo anno di età (entro un anno). Ci sono altre due strade per ottenerla: a) per trasmissione da un genitore straniero che nel frattempo l’ha chiesta e acquisita in base a criteri ben precisi (residenza ininterrotta da almeno dieci anni, reddito sufficiente, non precedenti penali); b) dietro domanda di una persona adulta, nata in Italia; il periodo minimo richiesto di residenza continuata, in tal caso, scende da dieci a tre anni. Se restiamo, dunque, al caso italiano, la discussione sullo ius soli è superata da tempo. L’Italia già con la legge del 1992 aveva in qualche modo adeguato i criteri dello ius sanguinis alla mutata situazione di tanti cittadini di fatto non di nazionalità italiana. La riprova è che in Italia cresce il numero di persone che la ottengono (ma sono residenti da almeno quindici-venti anni e hanno atteso un lungo iter procedurale).
Il problema che il disegno di legge approvato dalla Camera (e fermo per ora al Senato) cerca di affrontare è il riconoscimento dello status civitatis a due categorie di persone non maggiorenni: a) nati in Italia da genitori stranieri lungo-residenti (almeno da cinque anni ininterrottamente e per gli extra-Ue, in più, con prova di avere un reddito sufficiente, un alloggio e di aver superato un esame di lingua) e b) minori arrivati prima di aver compiuto dodici anni e che abbiano frequentato un ciclo scolastico. La Fondazione Leone Moressa calcola che assieme queste due coorti siano costituite da minori, adolescenti e giovani adulti nati e/o cresciuti in Italia, pari in totale a 800mila persone. Dunque, stiamo parlando del nostro futuro, non certo di quello degli stranieri.
Fin qui parliamo di cittadinanza formale che consente ad un individuo di esercitare pienamente i diritti civili, sociali e politici. Non è detto, però, che tale condizione assicuri la cittadinanza materiale o effettiva, per sentirsi parte integrante e attiva di una comunità politica. Ciò vale per tutti, ovviamente, ma molto di più per quel segmento della popolazione (di fatto) italiana che però sente di non essere riconosciuta come tale. Avverte di essere considerata ancora straniera. Ogni anno, da qualche anno, sui giornali leggiamo che in una scuola elementare molte prime classi sono «composte da stranieri» o che «ci sono solo due italiani, mentre i loro compagni sono stranieri». Non è detto che sia necessariamente un segno di xenofobia. Parlerei piuttosto di una falsa coscienza, che è condivisa da molti nostri connazionali. Si continua a pensare a queste nuove generazioni come “foreste”, perché su di esse si scarica la paura nei confronti della grande trasformazione delle nostre società: non più omogenee (se lo sono mai state), caratterizzate da un oggettivo pluralismo di culture (in senso antropologico), fedi, lingue, costumi e gusti alimentari. Il non riconoscimento della cittadinanza a questi nuovi, di fatto, cittadini italiani è un segno di debolezza culturale e di sguardo corto, ripiegato sul presente e non proiettato verso il futuro.
(pubblicato su Confronti di novembre 2017)
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