di Felice Mill Colorni
La crisi catalana rischia di creare gravi danni, politici ed economici, non solo alla Catalogna e alla Spagna, ma all’intera Europa. Il governo spagnolo ha deciso il commissariamento delle istituzioni catalane, la situazione si fa ogni giorno più preoccupante: il procuratore generale spagnolo Maza ha chiesto l’incriminazione per il presidente Puigdemont con l’accusa di ribellione e sedizione.
Se l’Unione europea fosse una federazione democratica, anziché, com’è ancor oggi, un oggetto di incerta classificazione ma purtroppo ancora largamente nelle mani dei governi statali, la questione della Catalogna avrebbe lo stesso rilievo che ebbe anni fa l’istituzione della regione Molise e la sua separazione dall’Abruzzo operata con legge costituzionale nel 1963, vicenda di cui ben poco si discusse all’epoca nel resto del paese e di cui oggi pochissimi sanno. Ma, poiché gli Stati sono ancora, purtroppo, i principali padroni dell’Europa, quella catalana è una crisi che rischia di creare gravi danni, politici ed economici, non solo alla Catalogna e alla Spagna, ma anche all’intera Europa e perfino all’economia globale.
Solo in Spagna il termine “nazionalismo” si usa per designare, più che la degenerazione esclusivista e autoritaria del patriottismo all’interno di compagini statali esistenti, le tendenze autonomistiche o secessionistiche delle antiche “nazioni” di cui lo Stato spagnolo si compone. In sé, il “nazionalismo” catalano – come del resto quello scozzese – avrebbe tutte le caratteristiche per essere considerato il più mite e rassicurante dei “nazionalismi”.
In questi anni intellettuali e politici catalanisti sono stati molto abili e sofisticati nell’elaborare un’idea della soggettività politica che ha ben poco a che fare con quel che si definisce nazionalismo in tutto il resto dell’Europa e del mondo (e l’uso del termine certo non aiuta a comprendere il conflitto delle rappresentazioni, spagnola e catalana, della controversia): un’idea della soggettività politica interamente civica e per nulla etnica, che non solo non esclude, ma mira a includere a pieno titolo quella gran parte della popolazione catalana che – soprattutto a Barcellona – ha origini personali o familiari non catalane o anche non spagnole, compresi gli immigrati di origine non europea (molti ricorderanno la gigantesca manifestazione popolare tenutasi mesi fa a Barcellona in difesa dei diritti di questi ultimi).
Non si potrebbe immaginare, da questo punto di vista, un modello più lontano, per esempio, da quello basco, così imbevuto di sinistre risonanze di “sangue e suolo” e inevitabilmente legato alla lunga stagione terroristica, o anche da quello galiziano, che, pur politicamente assai più moderato degli altri due, si nutre però di un culto della tradizione atavica di impronta inevitabilmente conservatrice.
È spiazzante, ad esempio, l’argomento con cui i catalanisti difendono e giustificano l’uso del catalano veicolare nell’istruzione pubblica, quale strumento necessario a impedire – anziché a provocare, come un estraneo sarebbe portato a pensare – il sorgere di comunitarismi contrapposti: la conoscenza e la padronanza del catalano, oltre che del castigliano, da parte dell’intera popolazione, si argomenta, è lo strumento necessario all’esistenza di un’arena politica e culturale unitaria anziché di due comunità introvertite e portate a comunicare e dibattere solo al proprio interno.
Se la Repubblica era stata divisa sul grado di autonomia politica e culturale da riconoscere alle nazionalità, divisa fra il centralismo un po’ giacobino di un Manuel Azaña e il regionalismo spinto di un José Ortega y Gasset, il franchismo aveva ferocemente represso ogni minima espressione di autonomia anche soltanto culturale o linguistica. La Catalogna, del resto, era stata l’ultima roccaforte della resistenza repubblicana.
C’è indubbiamente anche un rilevante aspetto economico nelle rivendicazioni della Catalogna, che è di gran lunga la parte più ricca della Spagna, ma sarebbe sbagliato considerare per questo i catalanisti alla stregua di leghisti “padani”, da cui hanno sempre tenuto a marcare una distanza abissale. Dalla caduta della dittatura, intellettuali e politici catalanisti hanno avviato, si direbbe fuori tempo massimo, una sorta di processo di nation building che, come sempre in questi casi, ha utilizzato materiali sicuramente fondati nella realtà storica, ma enfatizzati fino alla dimensione del mito. Un mito, però, nel loro caso decisamente “progressista”, che non esita ad appropriarsi delle tradizioni non solo antifasciste, ma anche libertarie e perfino anarchiche della storia catalana, ben rappresentato nel Museo della Storia della Catalogna inaugurato nel 1996 a Barcellona. La Catalogna sarebbe caratterizzata da un’univoca vocazione marittima, commerciale, industriale, aperta all’Europa occidentale e al mondo esterno, alla tolleranza e a ogni idea moderna e progressista, ribelle e anticonformista, contrapposta a una Spagna agricola, feudale, autoritaria, inquisitoriale, centralista, clericale, oscurantista, militarista, dittatoriale, e alla fine coerentemente fascista, che l’avrebbe sottomessa e umiliata, definitivamente dopo la conclusione della guerra di successione di inizio Settecento e nuovamente poi con la vittoria di Franco nella guerra civile.
A ben vedere, si tratta della stessa leyenda negra sulla presenza spagnola in Italia, di cui largamente si nutrì lo stesso Risorgimento italiano.
Come tutti i miti nazionali, anche quello catalano (proprio come quel mito risorgimentale italiano, o come quelli americano o sovietico durante la guerra fredda – o come oggi la caricaturale visione della Germania unificata agli occhi di molti vicini) tende ad accreditare astratte visioni, sostanzialmente essenzialistiche e quindi immutabili, o comunque difficilmente modificabili, delle identità nazionali.
Sarebbe facile replicare che, dopo quarant’anni di vita costituzionale democratica e nell’attuale contesto europeo, la Spagna non ha più nulla a che fare con quella di un tempo. Ed è tutt’altro che scontata la volontà della maggioranza della popolazione della Catalogna di separarsi dalla Spagna, una scommessa che la composita maggioranza al potere potrebbe perdere; e che, se invece dovesse prima o poi vincere, difficilmente la vedrebbe di nuovo riunita, dato che i centristi e l’estrema sinistra che la compongono non avrebbero verosimilmente più molte ragioni per continuare a collaborare, costringendoli a cercare alleanze con i partiti “spagnolisti”. Per di più, per quanto inclusiva e civica possa essere la proposta catalanista, è da vedere quanto restia a farsi includere continuerebbe a rimanere la parte della popolazione contraria all’indipendenza, comunque e certamente rilevante. E il referendum catalano è stato certamente illegittimo, almeno nella sua pretesa di essere decisorio e normativo.
Sennonché la scomposta reazione autoritaria, e perfino violenta contro cittadini inermi, della politica spagnola – e non solo quella di Rajoy e del Partito Popolare, di cui si erano quasi dimenticate le origini prevalentemente situate nell’ala moderata del franchismo – è sembrata fatta apposta per tornare ad avvalorare i peggiori incubi dei catalani.
Ma una grave controversia politica si può risolvere e disinnescare solo con un dialogo aperto, come la politica britannica seppe fare tre anni fa con il referendum scozzese, non certo con richiami all’ordine, dichiarazioni arroganti e boriose o con imposizioni unilaterali, inevitabilmente subite come intollerabilmente autoritarie benché formalmente legittime. Il conflitto delle rispettive rappresentazioni, così, si acuisce e si fa pericolosamente senso comune fra i cittadini. Mentre le istituzioni europee, che da questo conflitto hanno anch’esse tutto da perdere, sono paralizzate dalla loro governance intergovernativa.
(pubblicato su Confronti di novembre 2017)
1 comment
Credo che il movimento independentista catalano non sia capace di attrarre simpatie perchè non è capace di definirsi come soggetto politico autonomo. Per proporre la costruzione di uno stato non è sufficiente riattizzare sentimenti patriottici senza offrire un disegno dell’utopia che si vuole costruire. E per costruire una Terra Promessa che vada bene a milioni di persone bisogna avere idee, mezzi, desideri molto efficaci e molto autentici. Non è sufficiente agire sul piano simbolico abolendo le corride dei tori in Catalogna, organizzando manifestazioni Pro-Migranti o dicendo male della Monarchia perchè nel XXI oramai va abolita.
La parola d’ordine sovrana del movimento independentista è stata “Vogliamo una Repubblica”. Ma quale Repubblica ? Perchè una Repubblica e non qualcos’altro ? Fondata su quali valori ? Dentro all’Europa ? Fuori dall’Europa ? Troppe risposte lasciate in bianco.
Purtroppo la mancanza di dialogo tra le tante persone che non si identificano né con il nazionalismo catalano né con l’autoritarismo unionista è pesante concausa della mancanza di leaders politici capaci di esprimere con risolutezza pubblica e mediatica.
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