intervista a Riccardo Di Segni (a cura di Claudio Paravati)
Riccardo Di Segni, rabbino-capo di Roma e vicepresidente della Conferenza dei rabbini europei, spiega in quest’intervista la genesi di Fra Gerusalemme e Roma e il lavoro “non semplice” che è stato necessario per redigere, infine, un’ampia riflessione di autorevoli rappresentanti europei, statunitensi e israeliani dell’ebraismo ortodosso sulla Nostra aetate.
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Come mai il documento “Fra Gerusalemme e Roma”, che è una risposta corale di gran parte dell’ebraismo ortodosso alla “Nostra aetate”, giunge oltre cinquant’anni dopo l’approvazione di quel testo?
Il documento Fra Gerusalemme e Roma mette insieme rappresentanze larghe e autorevoli dell’ebraismo ortodosso (non tutto tale ebraismo, sarebbe una missione impossibile!). Esso nasce da una necessità che si sentiva da molto tempo: alla Nostra aetate (documento del 1965) non era stata data una risposta sotto forma di documenti o dichiarazioni condivise. Ci sono stati, peraltro, numerosi interventi nel tempo, firmati anche da qualche rabbino ortodosso, che hanno sollevato più problemi che soluzioni, perché toccavano aspetti dottrinali molto delicati, e che invece di unire hanno diviso. A questo punto, nell’ambito soprattutto del rabbinato europeo (organizzato nella Conference of European Rabbis), si è sentita la necessità di fare un documento che raccogliesse un ampio consenso. Cosa che non è stata semplice: c’è stata una discussione serrata, che ha necessitato di limature progressive, correzioni… Se uno volesse pubblicare gli atti di questa discussione darebbe testimonianza di una storia interessante.
Quali sono stati i nodi più difficili da sciogliere? Quali erano le anime del dibattito?
Il punto di partenza è che non esiste una teologia ebraica del cristianesimo. Da millenni, da secoli, le opinioni formulate a proposito della religione cristiana sono – tra noi – diverse e differenti, e alcune di esse polemiche, problematiche. E questo è un punto. L’altro è che quando uscì Nostra aetate ci furono esponenti autorevoli dell’ebraismo ortodosso che espressero dei pareri, se non polemici, molto cauti. Dissero che bisognava capire che cos’era, dove avrebbe portato, misero dei paletti, «non si parla di teologia» e così via. Una delle dichiarazioni più critiche e più perplesse fu fatta proprio da rav Elio Toaff [rabbino-capo di Roma dal 1951 al 2001], che appunto incarnava un po’ lo spirito di quelli che non si fidavano. Anche perché la dichiarazione Nostra aetate è sì stata una rivoluzione, dal punto di vista cattolico, ma per alcuni aspetti – a nostro parere – conserva dei punti di estrema problematicità, e quindi non ci dava completa fiducia. Tuttavia, con il passare del tempo, si è creata una corrente di fiducia, e molte diffidenze si sono affievolite. Non che i problemi siano tutti risolti. Però, alla luce di questa realtà modificata, bisognava prenderne atto, e così è stato con questo documento.
Che cosa suggerisce, in concreto, il vostro testo? Viene ribadita a ogni piè sospinto la diversità teologica tra ebraismo e cristianesimo, oppure apre una nuova stagione di dialogo?
Intanto la questione della differente teologia tra le due Parti è un paletto essenziale che viene ribadito molte volte nel testo: non ci può essere un confronto su temi teologici; il confronto deve essere solamente sul campo del rispetto reciproco e dell’azione coordinata. Si pensi che in molti settori neppure a questo si era ancora arrivati, perché si diceva «siamo differenti e non c’è nulla da fare»; non solo, ma si aggiungeva anche «non ci crediamo che la Chiesa cattolica abbia rinunciato all’idea di convertirci tutti quanti, e quindi meglio starcene da parte». Rispetto a questo c’è un’apertura nuova, nel senso che ci si riconosce come partner in un progetto di lavoro comune: lavorare insieme per comunicare dei valori fondamentali e condivisi al mondo.
E quindi è caduto, se così si può dire, il timore che la Chiesa cattolica tenti di spingervi alla “conversione”? Si è fatto un passo avanti in questo senso?
Diciamolo in altri termini: avendo la Chiesa cattolica, almeno ufficialmente, rinunciato a farsi parte attiva nell’azione di proselitismo, lo scambio, la conoscenza e la collaborazione possono essere fatti in un regime di maggiore tranquillità.
Lei ritiene che sia stato dato il giusto peso, in Italia, a questo documento da parte dei mass media e quindi della comunicazione all’opinione pubblica?
Penso che per l’opinione pubblica il tema sia poco interessante. La questione mi pare che abbia riguardato soprattutto la stampa specializzata: dall’Osservatore romano all’Avvenire, e adesso anche voi di Confronti.
Dopo questa tappa, che mi sembra molto significativa nel dialogo tra l’ebraismo e la Chiesa cattolica, cosa ci si può attendere per continuare in questo cammino?
Siamo arrivati ad una sorta di rasserenamento del clima, e quando si rasserena il clima è sempre una buona notizia. Adesso i problemi che deve affrontare il mondo, compreso l’incontro o lo scontro tra le religioni, sono cambiati, rispetto a cinquant’anni fa. Gli scenari sono molto differenti e quindi, rispetto a questo, tale nuovo clima rende possibile una base di ragionamento positiva e, speriamo, efficace.
Tornando al vostro documento, qual è stato, secondo lei, il ruolo dell’ebraismo italiano nella sua elaborazione?
Diciamo che c’è un ruolo indiretto, storico, nel senso che alcuni eventi molto importanti, riguardanti il rapporto ebraismo/cattolicesimo, si sono svolti in Italia. Per quanto poi riguarda l’elaborazione del documento, l’apporto dell’ebraismo italiano passa più dalle persone che si sono impegnate e che hanno dato il proprio contributo.
È una coincidenza che si sia giunti a questo momento proprio sotto il papato di Bergoglio?
Un papa favorevole alla prosecuzione del dialogo è certo una condizione indispensabile per andare avanti. I tempi erano maturi e la presenza di Francesco ha aiutato.
Il documento è un segno importante di presa d’atto; sarebbe certamente auspicabile che questo tipo di relazioni si allargasse ad altri mondi religiosi.
(pubblicato su Confronti di ottobre 2017)